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Aspetti religiosi nel Regno di Napoli durante il Settecento
Sacra miscere profanis. Compenetrare il piano ecclesiastico con quello laico. Ad Dei atque Regni majorem gloriam. Per le migliori fortune della Chiesa e della Nazione. Ecco il succo del disegno politico che in materia religiosa caratterizzava nel Settecento lo Stato di Napoli, dalla sua capitale fino alle terre più lontane[1]. Il diciottesimo secolo – “tempo eroico” della storia partenopea, per dirla con il Tanucci[2] – si apriva con l’avvento di una dinastia intimamente connessa al popolo ma si chiudeva con la tragica avventura di una repubblica forgiata da validissimi uomini, tuttavia colpevoli di aver sposato un’ideologia assolutamente estranea al tessuto sociale del luogo. Arturo Carlo Jemolo sosteneva che “l’ordito della storia è dei più complicati; dottrina e pratica, teoria ed azione sono sempre mescolate… e pertanto non poteva non darsi una certa propensione per quegli scrittori giurisdizionalisti che osteggiavano l’assolutismo papale e per quei riformisti, sul terreno economico sociale e politico, che restavano inascoltati dai monarchi”[3]. Il tutto sollecitato da una ventata religiosa imprevista e autentica quale era il verbo del giansenismo[4]. Per questi motivi, re Carlo di Borbone[5], che intuiva la novità dei tempi pur senza dominarla, puntava il suo obiettivo sul progresso economico e civile, tuttavia senza poter contare su strutture politico-sociali in grado di sostenere finalità etiche; l’impatto tra spirito progressista e spirito conservatore accentuava le differenze e provocava danni irreparabili per il futuro dei cittadini napoletani.
Per cominciare va rilevato che la densità demografica della capitale dell’antico Regno era una delle più intense del continente, pari a Londra e Parigi, prima assoluta in Italia. Intorno al 1790 gli abitanti superavano i 350mila, di cui almeno 15mila erano i religiosi di entrambi i sessi, circa tremila gli avvocati e i procuratori legali (i loro albi venivano istituiti nel 1781) mentre superavano il migliaio medici e cerusici, gli addetti alle amministrazioni pubbliche (Corte, segreterie di Stato, magistrature centrali e municipali, docenti universitari) oscillavano tra i 6-7mila, e altre 30mila persone lavoravano nell’ambito delle famiglie nobili e ricche per feudi o attività commerciali; un terzo dei residenti nella capitale, dunque, viveva dell’ombra delle “arti liberali”. Gli altri due terzi della popolazione si adoperava nei mestieri cosiddetti umili o bassi, spesso campando “alla giornata”, che dal 1792 venivano ripartiti in “arti annonarie” e “arti meccaniche”: le prime comprendevano la quasi totalità dei bottegai stanziali e dei merciai itineranti; le seconde riguardavano artigiani e imprenditori ma anche barbieri, guantai, librai, orefici, sellai, vetrai e falegnami, categorie disciplinate da appositi capitoli e controllate da consoli eletti dagli stessi soci[6]. Ovviamente era abbastanza disparata la situazione tra città e campagne, tra grossi paesi e minuti villaggi.
Prendiamo in esame il caso di Scala, località della penisola amalfitana che – rispetto al presente saggio – appare significativo in quanto proprio qui, nel 1732, nacque il primo nucleo della Congregazione del Santissimo Redentore ad opera di Alfonso Maria de’ Liguori[7] e alla quale aderì suor Maria Celeste Crostarosa[8], protagonista assoluta di questo saggio-racconto ideato dalla fertile penna di Mariano de Angelis. Bene, a metà Settecento la località di Scala contava 1.713 abitanti, suddivisi in 295 focolari (nuclei famigliari) di cui il 68,1 per cento a struttura nucleare, vale a dire costituiti da una semplice coppia, mentre il resto presentava una formazione più complessa, con una media di 5,8 unità (in particolare, il 9 per cento delle famiglie si segnalava per una consistenza superiore alle dieci persone): va spiegato che l’alto numero di singoli e coppie senza figli era offerto da anziani, fiscalmente ritenuti separati dai figli; quanto al lavoro, circa la metà della popolazione esercitava attività artigianali, il 15% venivano definito bastasi ovvero facchini o braccianti, poco più di un decimo si dedicava al commercio, pochissimi erano gli agricoltori e gli allevatori, tra l’uno e il due per cento si contavano i possidenti e i professionisti[9]. Articolato si presentava l’apparato religioso, tra preti secolari e ordini conventuali maschili e femminili: in tale comparto spiccava il Conservatorio dell’Immacolata Concezione fondato nel 1637 che nel 1720 veniva denominato Monastero della Visitazione e poco più tardi diventava casa madre dell’Ordine redentorista[10].
Valutando nell’intero Regno lo stato del clero cattolico, va detto che esso non rappresentava affatto un peso sociale perché un gran numero di sacerdoti e frati – accanto alle normali attività pastorali – si prodigavano nell’insegnamento e nella formazione dei giovani sia negli studi primari sia in quelli secondari (da sottolineare che Napoli aveva introdotto per prima il sistema delle scuole “normali”): in tale campo si dimostravano validissime le iniziative dei Gesuiti prima della loro espulsione dal Regno con la Casa della Conocchia in pieno centro a Montesanto e le scuole gratuite per il popolo nel borgo di Sant’Antonio Abate, e le Maestre Pie Filippine con le loro case alla Pignasecca alla Concordia e alla Zecca riservate alle giovinette mentre il cardinale Sersale – per fare fronte alle richieste didattiche dei giovani – inaugurava un nuovo seminario al vico della Lava (oggi via Trinchera, alle spalle del palazzo arcivescovile). Tutto ciò assecondava lo spirito nuovo che Benedetto XIV[11] apportava nella Chiesa del suo tempo facendo rifiorire diffuse speranze tra i credenti; non a caso un osservatore laico ha così sintetizzato il pontificato del colto Lambertini: “Con lui si affermò un atteggiamento umanitario e prudentemente tollerante, una disponibilità a tenere in conto sia le ragioni degli Stati che cominciavano ad avanzare precise richieste di limitazione del potere del clero, sia le esigenze di sviluppo civile e culturale che venivano dalla società. Fu interprete di una visione intermedia del cattolicesimo, né giansenista né gesuitica, intellettualmente colta e moralmente comprensiva verso l’uomo”[12].
In tale clima si andava sviluppando l’esperienza redentorista (l’istituzione della Congregazione veniva ufficialmente approvata nel 1749) che poteva anche giovarsi da quel Sinodo napoletano del giugno 1726 che segnava un’autentica svolta nella politica ecclesiastica con l’aggiornamento, ampio e necessario, di tante norme riguardanti la cura delle anime e la disciplina del clero, oltre ad aprire le porte verso il nuovo Regno borbonico (1734) e il successivo Concordato (1741). La Napoli di due secoli fa, in specie nella seconda parte del Settecento, andava scoprendo elementi innovatori in ogni settore della vita pubblica con l’apporto diretto di tanti ecclesiastici i quali, comprendendo l’importanza delle idee illuministiche, avevano subito cercato di stabilire qualche assimilazione con la dottrina cattolica. Il giansenismo d’oltre Alpe, scuola teologica tendente ad esaltare un Dio fonte di giustizia assoluta senza intermediari umani, si fa alleato del movimento giurisdizionalista, separazione con la Chiesa e supremazia dello Stato, che attecchisce al meglio nella mondo meridionale dello jus. Epigoni dei due schieramenti erano: il vescovo Capecelatro e l’abate de Gros da un lato, l’erudito Giannone dall’altro, tutti e tre con folte schiere di avversari, seguaci e ammiratori.
Giuseppe Capecelatro (Napoli 1744-1836) aveva alle spalle una brillante carriera ecclesiastica cominciata nel 1767 come cappellano nella sua città, membro della Congregazione delle Apostoliche Missioni, canonico della cattedrale, passato poi in curia a Roma e nominato a soli 34 anni vescovo di Taranto: nel corso degli anni pubblicava diversi scritti tra cui nel 1788 un polemico Discorso istorico-politico dell’origine, del progresso e della decadenza del potere de’ chierici su le signorie temporali. Al conte Carlo Armano de Gros (dall’amico e protettore Bernardo Tanucci definito quale “cavaliere turinese, sacerdote di vita esemplare, e gran dottrina…”) si deve la forte penetrazione del giansenismo e delle tesi di Utrecht nell’ambiente napoletano: poco più che trentenne, nel 1762 egli giungeva da Roma con l’intenzione di rimanervi un’estate per ristabilirsi da un’indisposizione; adattandosi alla città in modo perfetto, vi rimaneva invece per oltre trenta anni coltivando numerose e ottime amicizie, attraverso le quali – grazie anche all’unanime rispetto – riusciva a diffondere idee e libri sia a carattere giansenista sia contrari ai gesuiti: per tale motivo i fautori di questi ultimi più volte ma sempre invano ne avevano reclamato l’allontanamento; a fine marzo 1796 l’inquieto prelato piemontese, da qualche tempo ossessionato da una grave infermità, poneva fine ai suoi giorni con il suicidio. Storico e scrittore, propugnatore della netta separazione tra trono e altare, Pietro Giannone (Ischitella di Puglia 1676 - Torino 1748, dove presumeva di avere libertà di azione e invece fu ricambiato con il carcere) portava avanti nei suoi scritti una forte requisitoria contro gli abusi della Chiesa moderna, contrapponendola a quella primitiva, pura ed evangelica, per negare la natura divina del potere temporale dei papi attraverso una serie di concetti in linea con la tradizione giurisdizionalistica napoletana. Senza alcun dubbio, tutto il pensiero laico del Settecento fa perno sulla Storia civile del Regno di Napoli e sul Triregno dello studioso meridionale.
Le ripercussioni di un simile stato culturale collimavano con l’esistenza comune in ogni ambito della società. Ovviamente, soprattutto nello spazio religioso, a quei tempi di particolare rilevanza, si sviluppavano molteplici pirotecniche e partecipate “anime” di devozione popolare. La Chiesa di San Gennaro, come abbiamo visto, nel 1726 aveva fatto ricorso ad un apposito Sinodo per mettere ordine nel composito e confusionario assetto ecclesiale, pur senza interferire sulla mentalità di professi e di laici. Del resto, i semi della propaganda giansenista e degli insegnamenti giannonei avevano sviluppato pianticelle ben radicate i cui frutti sarebbe emersi a breve termine con il Concordato del 1741, con la chiusura del Santo Officio nel 1746, con la cacciata dei Gesuiti nel 1767, con la sospensione della “chinea”[13] ovvero del dono annuale che riconosceva la soggezione del Regno alla Santa Sede nel 1788, infine con la soppressione delle “decime” ecclesiastiche e con l’abolizione del foro ecclesiastico che garantiva al clero troppe prerogative rispetto ai cittadini comuni. Il laicismo prendeva piede con piccole e grandi modalità; tra esse va rilevato il crescente numero, anche tra i tonsurati, di associati nelle logge massoniche e nei club di stampo giacobino sorti come funghi[14]. Tutto ciò non poteva non avere riflessi sulla mentalità delle élites cittadine che costituivano la classe dominante ove circolavano con grande attenzione le idee “nuove” di Antonio Genovesi e Gaetano Filangieri, di Ferdinando Galiani e Pietro Napoli-Signorelli, di Giuseppe Cestari e Mario Pagano. Ci si avvicinava così a quel calare del secolo, con il fatidico anno 1799, che tante conseguenze politiche e sociali avrebbe prodotto per i destini della Patria napoletana.
A livello di masse popolari, invece, il sentimento religioso della gente era assecondato dalla folta schiera di preti frati e monache che guidavano, la fede alimentavano e sostenevano in buona fede ogni tipo di scelta ascetica o dottrinale: e qui basta ricordare l’assidua predicazione del domenicano padre Gregorio Rocco[15], del francescano Giuseppe del Pozzo, del gesuita padre Francesco Pepe, e buon ultimo di don Placido Baccher (operante soprattutto nel primo Ottocento), oltre alla dominante presenza dell’esemplare vescovo Alfonso de’ Liguori circondato da numerosi e validi coadiutori[16]. E molti altri nomi andrebbero citati: ad esempio, come padre Leonardo da Porto Maurizio (1676-1751) ideatore del rito della Via Crucis, come il laico redentorista Gerardo Majella (1726-1755) venerato soprattutto a Materdomini in Irpinia dove è morto, come il fondatore dei Padri Passionisti, Paolo della Croce (1694-1775), in seguito tutti e tre elevati agli onori degli altari. In tutti costoro prevaleva lo spirito missionario della predicazione per dare saldezza alla fede degli incerti e degli increduli. Allora le missioni rappresentavano un fenomeno di ampio respiro, particolarmente efficace nelle campagne e nei quartieri poveri delle città, perché studiate per la massa del popolo che ne assorbiva il messaggio dettato a ripetizione nel corso di tempi “forti” come la quaresima o l’autunno[17]: quando arrivano i predicatori la vita locale subiva un blocco, tutti accorrevano per partecipare ai riti, ad ascoltare le omelie, a compiere atti espiatori, a confessarsi e a comunicarsi, tutti assieme senza distinzioni classiste. Di questa forma pastorale si occupava, tra l’altro, un’apposita congregazione fondata addirittura nel 1646 con il nome di “Apostoliche Missioni” (poi articolate in quattro rami: Assunta, Illustrissimi copiata anche in altre diocesi italiane, Purità e Pia Adunanza) formata da oltre duecento ecclesiastici insigni per dottrina doti umane e zelo (docti, ut minimum sint theologi… ecclesiastico spiritu praestiti, honestis natalibus, sufficienti doctrina… et solicitudines pro Dei gloria vocatos esse intelligant, prescriveva la regola). Va rilevato che, nel corso della loro lunga vita durata fino agli inizi del ventesimo secolo, queste missioni riuscivano ad ottenere grandi risultati ai fini del proselitismo sia tra le masse sia tra gli ambienti più avanzati[18]. D’altra parte – precisa il De Rosa – “la religione popolare non si misura sulla base di una generica gerarchia sociale né essa ci può dare da sola la misura della maggiore o minore autenticità religiosa di questa o quella area socioculturale”, ragione per cui si può affermare con sicurezza che “la predicazione missionaria è certamente il più grande fatto religioso del Settecento, che superò la stessa dimensione parrocchiale della vita religiosa e concorse a strappare all’ignoranza moltitudini di fedeli, vissute per secoli in una religiosità costantemente commista alla pratica magica e alla superstizione”[19].
Da tale ribollire di fede e di speranze conseguiva che, nel giro di pochi decenni, la Curia napoletana - sollecitata dal fervore popolare - riteneva di dover avviare oltre venti procedimenti di beatificazione[20], tutti chiaramente indicativi di carismi personali, fatiche apologetiche, frutti caritativi, evangelizzazioni apostoliche. A tale percorso strategico non potevano restare ininfluenti i pastori della Cattedra napoletana: forse in forma ridotta l’anziano cardinale Francesco Antonio Pignatelli (1703-1735), prelato di stampo antico al governo della diocesi per un trentennio “senza invenzioni pastorali e inferiore alle sue qualità morali”[21]; in misura più consistente, invece, il successore Giuseppe Spinelli (1735-1754) nominato a soli 39 anni che sapeva distinguersi per la volontà di rinnovamento curiale, per la cura e la diffusione della catechesi con forme più adatte ai nuovi tempi; infine, sia pure con una certa mentalità burocratica benché sempre finalizzata al bene supremo della Chiesa, si adoperavano il cauto Antonino Sersale (1754-1775, che aveva alle spalle esperienze episcopali a Brindisi e Taranto), il benedettino politicamente regalista Serafino Filangieri (1775-1782) e il debole per quanto evangelico Giuseppe Capece-Zurlo (1782-1801, religioso dell’Ordine teatino), acclamato “santo” dalla ricorrente voce del popolo ma finito miseramente in esilio a Montevergine per la sua esitante posizione davanti all’invasore francese.
Nel complesso e magnifico secolo diciottesimo la religiosità napoletana - nonostante talune contraddizioni, dovute a costumi atavici come pure a contingenze politiche - dava grande prova di vitalità grazie a numerose e concrete iniziative sul piano formativo, soprattutto con la creazione di istituti pastorali e culturali aperti ad ogni ceto di gente. Qualche esempio. Centri di catechesi e cappelle serotine (nelle quali insegnavano sacerdoti e laici, come barbieri bottegai ceramisti librai e maestri) offrivano al popolo minuto l’opportunità di apprendere e di pregare. I Presepi natalizi ed i Sepolcri in periodo pasquale costituivano forti momenti di pietà collettiva, parallelamente al culto di Maria e a quello del Bambino Gesù. Uno slancio complementare ad alto livello culturale si rilevava in altre sedi: prima nell’Accademia di materie ecclesiastiche, alloggiata presso l’oratorio filippino nei pressi del Duomo, e poi nell’Accademia arcivescovile. Il clero era certamente sovrabbondante: circa trenta le famiglie religiose e oltre cento i conventi nell’anno del Sinodo[22]. Un numero eccessivo, oneroso anche per le finanze regie, al punto che l’amministrazione non perdeva occasione per circoscriverne la potenza; con scarsi risultati, almeno fino al 1799 quando le soppressioni decise dalla Repubblica lasciavano in vita appena sette ordini religiosi. Analoga la situazione per l’ambito femminile. L’incameramento dei beni appartenenti a monasteri conventi e chiese faceva gola agli uomini di governo di ideologia illuministica; altrettanto si sarebbe verificato dopo l’Unità con l’esproprio forzoso dei beni ecclesiastici.
Nel popolo napoletano del Settecento lo zelo edificante – che non era dettato dalla semplice superstizione ma da autentici sentimenti – appariva ben radicato. In tale clima, tuttavia, non mancavano anche casi di spericolate imposture, come quella della fanatica Isabella Milone: costei asseriva di vivere disincarnata e che l’arcangelo Michele, al quale in realtà apparteneva il suo corpo, le faceva emanare manna odorosa mista a sudori di sangue; non pochi preti restavano avvinghiati dal suo carisma al punto da formare un gruppo compatto, per dileggio denominato dagli avversari con l’appellativo di Sabelliani[23].
Molto ci sarebbe ancora da indagare. Di certo, “è vero che le pratiche devozionali sono inversamente proporzionali alla cultura religiosa, ma un dato di fatto che gioca il suo ruolo a danno di questa cultura è il vivo senso di quel mondo magico che costituisce un nuovo filone di ricerca”[24]. Forse l’indagine andrebbe approfondita su varie direzioni, tenendo presente particolarmente che la finalità riguarda il bene supremo della religione e la sua affermazione in Occidente. Tutte queste cose, infatti, appaiono lodevoli per lo spirito cristiano e per i segni di carità che accompagnano ogni riferimento ai valori del sacro. Per tale motivo oggi dobbiamo guardare al passato con grande rispetto, onde ricavarne i semi per migliorare il presente. E ben si sa quanto sia necessaria una operazione di risanamento spirituale per questa società cresciuta nell’indifferenza dell’etica e nel culto della (estrema) secolarizzazione. La difesa delle radici europee del Cristianesimo, in quanto baluardo di civiltà e di umanità a favore dello stesso mondo laico o infedele, viene a situarsi in un discorso di recupero morale e culturale che non va sottovalutato. Quello che si semina nell’ora presente sarà raccolto soltanto dalle generazioni future. Ciò vale per la formazione personale secondo il dettato della Storia. E qui conviene citare di nuovo il Croce, per un preciso riferimento al secolo e al luogo che stiamo trattando: “Il progresso era lento e spesso contrastato e altrove, al paragone, si ottenne di più; ma di quel che si poteva o non si poteva richiedere e conseguire i migliori giudici non sono certo i critici posteriori, ma gli uomini che si trovavano in quei tempi, in quelle condizioni, alle prese con quelle difficoltà, e nei quali ardeva tanto zelo civile. Gli uomini che rifecero sé stessi mercé la cultura e il pensiero, crearono a sé stessi una patria, e sono i veri e soli nostri progenitori politici”[25]. Il discorso comprende sia lo spazio laico sia quello clericale, essendo entrambi componenti essenziali della patria meridionale.
Ecco dunque i contorni di una straordinaria vicenda nella Napoli religiosa del Settecento, epoca e contingenza che inducono a trarre variegate interpretazioni sulla “rivincita” della religione. Anche attraverso i segni che ci ha trasmesso una donna capace di esprimere una lezione mistica davvero originale, vicina all’esaltazione, ma niente affatto scadente nel fanatismo come potrebbe indurre un’affrettata lettura della sua complessa personalità e della sua tormentata esistenza: era appunto suor Maria Celeste Crostarosa.
Di questa donna sconosciuta alla gran parte degli storici, pur essendo dotata di una biografia misteriosa e avvincente nonché di un messaggio per taluni versi provocante, Mariano de Angelis ha ricostruito una originale quanto drammatica pagina tale da avvincere sia sotto il profilo schiettamente umano sia sotto l’aspetto puramente spirituale.
Giacomo de Antonellis
[1] La bibliografia sulle vicende religiose di Napoli nel ‘700 è abbastanza contenuta ma di alto prestigio. Segnaliamo una selezione di opere: Giuseppe Sparano, Memorie istoriche per illustrare gli Atti della Santa napoletana Chiesa, Napoli 1768;Luigi Parascandolo, Memorie storiche critiche e diplomatiche della Chiesa di Napoli, Napoli 1847-1851; Stanislao d’Aloe, Storia della Chiesa di Napoli provata con monumenti, Tipografia degli Accattoncelli, Napoli 1869; Benedetto Croce, La vita religiosa a Napoli nel Settecento, sta in Uomini e cose della vecchia Italia, volume II, Laterza, Bari 1956; Francesco Scaduto, Stato e Chiesa nelle Due Sicilie, Palermo 1969; Romeo De Maio, Società e vita religiosa a Napoli nell’età moderna (1656-1799), Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1971; Gabriele De Rosa, Vescovi popolo e magia nel Sud. Ricerche di storia socio-religiosa dal XVII al XIX secolo, Guida, Napoli 1971; Domenico Ambrasi, Riformatori e ribelli a Napoli nella seconda metà del Settecento, Luigi Regina, Napoli 1979; Gabriele De Rosa, Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, Laterza, Bari 1978; Giuseppe Orlandi, Il Regno di Napoli nel Settecento. Il mondo di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Collegium S. Alfonsi de Urbe, Roma 1996.
[2] Il toscano Bernardo Tanucci (Stia, Arezzo 1698 - Napoli 1783) esercitò la carica di ministro sotto Carlo e reggente del Regno (per la minore età di Ferdinando) per ben 43 anni: avversato dalla regina Carolina, nel 1777 preferiva ritirarsi in pensione. La citata espressione è riportata da Federico Valignani, marchese di Cepagatti, nel manoscritto Discorso sulle cose d’Italia fino a tutto marzo 1732, che trovasi presso la Biblioteca Marciana di Venezia.
[3] Arturo Carlo Jemolo, introduzione al volume di D. Ambrasi, Riformatori e ribelli…, op. cit., pag. x-xi.
[4] Il teologo olandese Cornelis Jansen (italianizzato in Giansenio, Ackow 1585 - Lovanio 1638) con la sua dottrina, in seguito proclamata “giansenismo”, si rifaceva alle idee di Agostino per riformare la Chiesa in termini più semplici e meno autoritari. La sua opera più nota è appunto intitolata Augustinus. Come movimento, il giansenismo veniva condannato a più riprese nel 1641, 1642 e 1653; altre condanne raggiungevano singoli esponenti.
[5] Questo illuminato sovrano (Madrid 1716 - 1788) apparteneva alla casata Borbone essendo quinto figlio di Filippo V di Spagna, ma secondo nato dal matrimonio del re con Isabella Farnese; nel 1731 riceveva dalla madre il Ducato di Parma e diventava principe ereditario di Toscana con il nome di Carlo I; poco dopo, nel 1734 saliva sul trono di Napoli e Sicilia come Carlo VII ma nel 1759 - alla morte del padre, assumendo la corona dinastica - diventava re di Spagna quale Carlo III lasciando al terzogenito Ferdinando il regno meridionale.
[6] Sulla situazione demografica e sociale del Regno appare fondamentale lo studio del molisano Giovanni Maria Galanti, Nuova descrizione storica e geografica delle Sicilie, Napoli 1787.
[7] Di nobile famiglia, questo santo napoletano (Marianella 1696 - Nocera dei Pagani 1787) era destinato alla carriera avvocatizia ma, disgustato dall’ambiente forense, abbracciava il sacerdozio a 30 anni e si impegnava interamente all’apostolato fondando nel 1732, assieme ad otto confratelli, la congregazione del Santissimo Redentore; a 66 anni, pur riluttante, doveva accettare l’episcopio di Sant’Agata dei Goti; alla soglia degli 80 anni, otteneva di ritirarsi in eremo per dedicarsi al proprio ordine con amore e abnegazione. Scrittore fertile e divulgativo (autore di una notissima cantata a Gesù Bambino, dell’Apparecchio alla morte e di una eccelsa Theologia moralis) veniva proclamato dottore della Chiesa nel 1781, beatificato nel 1816, canonizzato nel 1839, e patrono dei confessori nel 1950. La sua festa ricorre il 1° agosto. Per una esaustiva biografia si legga Theodule Rey-Mermet, Il Santo del secolo dei Lumi: Alfonso Maria de’ Liguori, Città Nuova, Roma 1983.
[8] Poco si conoscerebbe di Maria Celeste Crostarosa (Napoli 1696 – Foggia 1755, prima monaca carmelitana, poi visitandina, infine redentorista, contemporanea e amica di sant’Alfonso de’ Liguori) se ella non ci avesse lasciato una manoscritta Autobiografia densa di palpitazioni mistiche. Questo inedito testo è apparso soltanto di recente sotto forma di volume, a cura di Sabatino Majorano e Alessandra Simeoni, per i tipi di San Gerardo, Materdomini-Avellino 1998.
[9] Giovanna Da Molin, La famiglia nel passato. Strutture famigliari nel Regno di Napoli in età moderna, Cacucci editore, Bari 1990, pagg. 57-60.
[10] Carlo D’Amato, Scala, un centro amalfitano di carità, Scala 1975, pagg. 90-97.
[11] Prospero Lambertini, nato a Bologna nel 1675, detenne la cattedra pietrina dal 1740 al 1758. Erudito, scrittore brillante e protettore delle arti, guidò l’apparato ecclesiastico con dolcezza e vigore evitando i trabocchetti della politica.
[12] Dino Carpanetto, La politica delle riforme nella prima metà del Settecento, sta in D. Carpanetto – G. Recuperati, L’Italia del Settecento, Laterza, Bari 1986, pag. 245.
[13] Sull’omaggio annuale dei sovrani napoletani al pontefice in segno di vassallaggio (la cosiddetta “chinea”) si veda Giacomo de Antonellis, Storia di una borsa d’oro e di un cavallo bianco, su “L’Esopo”, numero 34, giugno 1987.
[14] Tra essi risaltava la Società patriottica nata nel 1792 al cui scioglimento, due anni più tardi, subentrarono i Club rivoluzionari Romo (repubblica o morte) e Lomo (libertà o morte). In proposito Michele Rossi, Nuova luce risultante dai veri fatti avvenuti in Napoli pochi anni prima del 1799, Barbèra, Firenze 1890.
[15] Religioso dal vulcanico carattere, si era fatto promotore di una iniziativa senza precedenti, d’intesa con le autorità pubbliche: l’illuminazione delle strade cittadine attraverso l’installazione di trecento edicole dedicate a santi e vergini, e dotate di lumini perenni che rendevano più edificante ma soprattutto più sicura la notte per i passanti. In una lettera del Tanucci, datata 4 gennaio 1774, viene sottolineato che padre Rocco aveva ricevuto “due cantari di ferro per farci croci e situarle in molti luoghi di Napoli alle quali procaccia dai bottegai contribuzioni per lumi notturni, colli quali riman la notte illuminata buona parte della città, e confida di poterla tutta illuminare” (sta in Rosa Mincuzzi, Lettere di Tanucci a Carlo III, Istituto per la storia del Risorgimento, Roma 1969).
[16] Tra essi si ricordano particolarmente Gennaro Maria Sarnelli (Napoli 1702-1744, già avvocato, dispensatore di carità tra i poveri) e Matteo Ripa (Eboli 1682 - Napoli 1746 missionario in Cina e fondatore nel 1732 del Collegio dei Cinesi a Napoli, poi trasformato in Istituto universitario Orientale).
[17] “Il ricordo della missione restava nei paesi non solo come evento straordinario, ma anche come insieme di massime, modi di pregare, modi di concepire il rapporto della vita con Dio e di sentire l’aldilà” (G. De Rosa, Chiesa e religione…, op. cit., pag. 44).
[18] Per approfondire l’argomento: Luciano Zuccalà, Le sante Missioni del Clero di Napoli secondo il metodo di S. Alfonso Maria de’ Liguori, Luce e sorriso, Napoli 1938, pagg. 94-104; Giacomo Nardi, Una congregazione missionaria a Napoli, Asprenas, Napoli 1961, pagg. 25-446.
[19] G. De Rosa, Chiesa e religione…, op. cit., pagg. 12 e 46.
[20] Si segnalano in particolare i processi per il riconoscimento delle virtù del redentorista Alfonso Maria de’ Liguori e del suo confratello Gennaro Maria Sarnelli; dell’eremita Giovanni Antonio Pellissier; del sacerdote secolare Mariano Arciero; del laico carmelitano Stefano Pelosi; della suora alcantarina Francesca Maria delle Cinque Piaghe e dei frati alcantarini (ordine spagnolo di francescani, detti anche pasqualiti) Giovanni Giuseppe della Croce, Ludovico di Gesù Sacramentato, Martino della Croce e Francesco di Sant’Antonio; del missionario Matteo Ripa, fondatore del Collegio dei Cinesi; dell’oratoriano Francesco d’Anna; del barnabita diciottenne Francesco Maria Castelli, del domenicano Francesco Maria Ruffo, dei “pii operai” Carlo Carafa, Antonio de Colellis, Carlo Antonio d’Orsi e Antonio Torres; del gesuita Francesco De Geronimo; dei conventuali Giovanni Battista di Borgogna e Bartolomeo Agricola da Amberga; delle suore Orsola Benincasa, Serafina di Dio, Rosa Giannini, Maria Villani e Maria Celeste Crostarosa.
[21] D. Ambrasi, Riformatori e ribelli…, op. cit. , pag. 351.
[22] Al punto che “la città di Napoli rischiava di diventare (così fu detto) tutta un monastero” (Benedetto Croce, Storia del Regno di Napoli, Laterza, Bari 1958, pag. 203). Analogo concetto viene espresso da Gino Doria in Storia di una capitale, Riccardo Ricciardi, Milano-Napoli 1968, pag. 202: “Persino il clero che conservava, pur con i nuovi spiriti di fronda, l’antica potenza e aumentava a tal segno le sue case che qualcuno temette non stesse Napoli per diventar tutta un monastero”.
[23] Il nome faceva riferimento ad una setta ereticale diffusa in Cirenaica e in Oriente nel terzo secolo da tale Sabellio, poi scomunicato da papa Callisto. La vicenda della Milone (Perdifumo, Salerno 1724 - Napoli 1782) si concludeva con la reclusione e l’internamento nell’ospedale degli Incurabili, dopo reiterati solleciti dell’arcivescovo Sersale, su denuncia del Tanucci disgustato dal fatto che la donna “si faceva passare per santa, operatrice di miracoli, vivente senza mangiare, profetessa, e d’una pietà molto diversa dalla vera e solida cristiana” (lettera al Re in data 25 agosto 1767).
[24] D. Ambrasi, Riformatori e ribelli…, op. cit., pag. 354.
[25] B. Croce, Storia del Regno…, op. cit., , pag. 224.