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Il periodo francese (1799-1815):
Era da pochi anni terminata la dominazione borbonica di Benevento (1768-1774), avutasi con l’ingresso delle truppe di Ferdinando IV nella città pontificia e dovuta alla contesa tra corte borbonica e Santa Sede a proposito della soppressione della Compagnia di Gesù, quando ulteriori venti di cambiamento istituzionale ripresero a soffiare sul Sannio.
Alla fine del Settecento la popolazione era di circa 14.000 abitanti per il capoluogo, di 6.000 nel resto del territorio (molto inferiore all’attuale provincia, praticamente poco più dell’attuale territorio comunale). La principale produzione consisteva in grano e tabacco, oltre alla orticoltura che rendeva pressoché autosufficiente il Ducato, retto da un Governatore prelato e da 24 consoli (otto dei quali in carica a turno per sei mesi, cosicché ogni 2 anni tutti erano stati in carica ed il consiglio veniva cambiato) scelti non più tra le quattro categorie medioevali (nobili, mercanti, artisti e agricoltori) ma, dalla seconda metà del secolo XVIII, tra patrizi, nobili viventi, probiviri e benestanti, civili e letterati. Le esenzioni fiscali facevano mancare veri antagonismi nell’amministrazione.
La situazione con i confinanti non era del tutto pacifica: nel 1796 i ministri del Regno di Napoli avevano caldeggiato la cessione del ducato in cambio dello Stato dei Presidi (in Toscana), salvo ricredersi – negli anni seguenti – temendo che l’acquisizione di una città «democratizzata» (a causa della presenza dei Francesi a Roma) potesse destabilizzare l’intero Regno.
Infatti la morte del generale Léonard Duphot (durante la rivolta antigiacobina del 28 dicembre 1797) venne sfruttata dai Francesi, che lo trasformarono in un nuovo affare Bassville e usarono l’omicidio per giustificare un attacco militare contro Roma. L’11 gennaio 1798 venne diramato l’ordine di conquistare la Città Eterna per instaurarvi una repubblica.
Con la caduta del potere temporale si aprirono le discussioni su Benevento. Nonostante le proteste relative alla pretesa scarsa importanza del Ducato, né la Francia né Napoli intendevano rinunciarvi. Il 16 aprile 1798 Ferdinando ordinò l’occupazione militare (che avvenne tre giorni dopo) di una città nella quasi totalità antigiacobina, ma divisa tra entusiasmo per il nuovo sovrano e rispetto per l’antico – peraltro l’occupazione fu esclusivamente militare, rimanendo inalterati il governatore e i magistrati cittadini; dal canto suo il comandante delle truppe, il Principe di Cutò, rifiutò le chiavi delle porte cittadine proprio per confermare la volontà di non alterare il governo. Intanto i colloqui con il Ministro degli Esteri francese, Talleyrand, proseguivano. Questi bussava a danari chiedendo per la Repubblica due milioni di talleri, ma sembrava pronto ad accettarne duecentomila per lui solo.
Alla fine dell’anno la situazione precipitò: Ferdinando IV decise di attaccare Roma (14 novembre), la conquistò e la perse nel giro di pochi giorni (14 dicembre). Il successivo armistizio di Sparanise (12 gennaio 1799) previde la presenza di una guarnigione francese a Benevento e il 14 gennaio i dragoni comandati da Chabrier entrarono in città.
La Repubblica giacobina e l’Insorgenza
La «democratizzazione», imposta dai Francesi, non fu accolta positivamente a Benevento, che mantenne un atteggiamento di «non larvata ostilità» nei confronti della Repubblica Napoletana. Tra gli altri, l’obbligo di portare una coccarda tricolore «in segno di subordinazione».
I tremila soldati entrati a Benevento il 19 gennaio 1799 confermarono la triste fama di spoliatori: lasciarono la città il giorno dopo non senza aver depredato durante la notte il tesoro della Cattedrale e il Monte dei Pegni. La reazione fu immediata: «accortosi il popolo dell’accaduto si levò al rumore e col suono delle campane a martello, chiamati gli abitanti dei circonvicini paesi, si fece ad inseguire i Francesi che a marcia forzata si inoltravano verso Napoli. Li sopraggiunsero, di fatti, passato Montesarchio, ed ivi venne alla mischia coi medesimi. Sul principio dell’azione numerosi Francesi rimasero vittima del furore dei Beneventani, ma essendo questi armati in massa, senza guida e direzione, rimasero, come è naturale, sopraffatti» [AVS, anno 1800-1801; Zazo 1941, 47-48]. Lo scontro, avvenuto in contrada Campizze, fu breve: circondati dalla cavalleria, gli insorgenti lasciarono sul campo numerosi morti (accertati – con nome e cognome – 78, ma alcune fonti salgono addirittura a quasi 500). L’insorgenza, guidata dal sacerdote Francesco Viespolo, si spostò quindi nel capoluogo, dove si lamentarono numerosi feriti (tra cui lo stesso religioso) e tre morti.
L’esercito francese, che stava marciando su Napoli, dove pure trovò una fierissima resistenza da parte della popolazione locale (si parla di oltre cinquemila morti – ma qualcuno sostiene che la cifra vada almeno raddoppiata – in tre giorni di combattimenti), non poté far pronto ritorno a Benevento, ma il generale Championnet impose comunque una pesante «contribuzione» (10.000 ducati) e la solita erezione dell’albero della libertà, posto di fronte al monumento a Papa Orsini (venne alzato nottetempo per la palese ostilità dei cittadini). La permanenza della brigata francese nel capoluogo costò subito alla città altri 3.500 ducati, pagamento imposto dai soldati che altrimenti minacciavano un saccheggio. Altri 14.000 ducati vennero pagati, a più riprese, nel corso dei mesi successivi per mantenere ufficiali e truppa. A capo della municipalità fu inviato Andrea Valiante, «singolare e non limpida figura di agitatore» [Zazo 1941, 52], un uomo già noto alle carceri napoletane, che sarà nuovamente protagonista della storia beneventana durante l’insurrezione carbonara del 1820 e morirà nel carcere di Pantelleria nove anni dopo. Le (scarse) richieste di annessione alla Repubblica Napoletana vennero bocciate: Benevento faceva a tutti gli effetti parte della Repubblica Francese e ben presto Valiante venne sostituito dal transalpino Charles Popp, che il 7 aprile fece ingresso in città, rivolgendosi immediatamente ai Beneventani usando il bilinguismo italo-francese. Nel giro di un mese Popp riformò la municipalità dimezzandone i membri, ora nominati direttamente dal governatore, introdusse la leva obbligatoria (definendola un «allargamento dell’onore di portare le armi»), spogliò le chiese degli argenti “superflui” e soppresse una decina di conventi. La popolazione, naturalmente ostile ai democratici, continuamente vessata dalle richieste di denaro e resa speranzosa dall’avanzata delle truppe del Cardinal Ruffo, prese le armi e si oppose all’ennesimo ingresso di milizie repubblicane (24 maggio 1799). Il generale Matera, che comandava le truppe, si ritirò a Napoli portando con sé, in qualità di ostaggi due membri della municipalità (il marchese Giuseppe Pacca ed il barone Sebastiano Schinosi). Il Monitore Napoletano, diretto da Eleonora Pimentel Fonseca, dava immediatamente la – falsa – notizia della capitolazione della città sannita (25 maggio). Nonostante le minacce repubblicane e gli ordini di procedere alla mobilitazione generale ed all’arresto dell’arcivescovo, gli eventi precipitarono: il 27 gli insorgenti abolirono la municipalità, abbatterono l’albero della libertà (essi in pieno giorno) collocando al suo posto, in riparazione, una Croce e formarono una «truppa civica reale», seguito presto da Arienzo, Airola, Montesarchio e dalla provincia di Montefusco. Il 29 maggio un dispaccio reale elogiava Benevento come «la più benemerita città del Regno» avendo dato per prima «i contrassegni di valorosa Religione e di attaccamento al trono», mentre il 3 giugno una schiera del Ruffo faceva un trionfale ingresso in città, accolta dal grido «viva il Re!».
La prima Restaurazione
Il breve periodo repubblicano aveva delineato le tre correnti che avrebbero delineato lo spirito pubblico: la conservatrice filo-papale (rappresentata soprattutto da nobili e clero), dominante fino all’Unità, e le due unioniste, quella realista o filo-borbonica e quella liberale, di stampo borghese. Tra queste ultime, la borbonica vedrà a mano a mano scemare le sue file a favore della liberale, facendosi notare soprattutto nel 1838 e nel 1852 (quando Ferdinando II farà pressioni per annettere il Ducato), mentre la liberale, a parte le parentesi rivoluzionarie (1821, 1830, 1848) prenderà il predominio nel 1860. Sotto l’attento occhio del “visitatore” fra’ Lodovico Ludovici, vescovo di Policastro, i collusi con il governo francese furono condannati a pene lievi (e quindi beneficiarono dell’indulto del 23 aprile 1800) e la pace fu ristabilita. Non venne ristabilita, invece, la chiara giurisdizione pontificia sul Ducato, che di fatto sembrava essere passato (assieme a Pontecorvo) al Regno di Napoli: abolito il diritto di asilo, presente una guarnigione regia (che fece festoso ingresso in città il 2 dicembre 1800), non irrilevanti i contrasti con il governatore pontificio, monsignore Giuseppe Stefano Zambelli, e con i consoli, che ritenevano eccessivo il gravame economico dei militi borbonici sulle entrate beneventane.
Passò quasi un anno prima che – per intervento diretto di Napoleone, che aveva firmato un concordato con Pio VII – Benevento fosse ufficialmente riassegnata allo Stato Pontificio e molto tempo ancora prima che la guarnigione borbonica lasciasse la città (cosa che avvenne nell’aprile 1802). Immediatamente venne rinnovato il consiglio (con una procedura di maggiore controllo, questa volta furono eletti 64 anziché 24 nominativi: la Santa Sede avrebbe poi stabilito quali tra di essi sarebbero diventati i 24 consiglieri) e ricominciarono le usuali beghe (il Governatore ci mise del proprio entrando in rotta con il Cardinal Ruffo, divenuto Commendatore della badia di Santa Sofia). Nel 1803 si registrò un’epidemia (1.500 i morti nel Ducato) che durò da aprile a giugno. Passato il contagio, la situazione sembrò andare normalizzandosi, nonostante i problemi causati dal Regno di Napoli in questioni di dogane e viabilità (Ferdinando IV pretese un aiuto nella manutenzione della rete stradale che passava vicino alla città pontificia).
Il ritorno dei Francesi: l’Impero
La battaglia di Austerlitz (1805) segnò il momentaneo imporsi del dominio napoleonico in Europa. Per quanto riguarda il Regno di Napoli, l’avvicendamento tra Borbone e Francesi fu – a differenza del 1799 – pressoché indolore: il 14 febbraio 1806 le truppe napoleoniche entrarono agevolmente a Napoli, “rea” di aver appoggiato la Terza Coalizione.
A Benevento, dove negli ultimi mesi si era accentuato il contrasto tra i nobili ed il Governatore Zambelli, i militari francesi giunsero il 18, guidati dal generale Duhesme, già comandante delle truppe repubblicane sette anni prima. Il Governatore si affrettò a “nascondere” i realisti beneventani, mettendo agli arresti domiciliari Giuseppe Collenea, tenente colonnello delle truppe provinciali, che si era presentato con la divisa militare napoletana per sottolineare le proprie idee politiche, e fece rimuovere le insegne monarchiche (nottetempo, come nel 1799 era avvenuta l’erezione dell’albero della libertà) nel tentativo di mantenere la neutralità del Ducato. Salendo sul trono di Napoli il 30 marzo 1806, Re Giuseppe Bonaparte confermò i diritti della Santa Sede (e particolarmente la dipendenza di Benevento da Roma), mentre le lotte partitiche si riaccendevano e il cardinale Ercole Consalvi (Segretario di Stato e costante punto di riferimento per le questioni beneventane) scriveva a Zambelli di evitare qualsiasi atto che implicasse un pur implicito riconoscimento di Re Giuseppe, fino ad omettere di nominarlo nelle lettere, indicandolo semplicemente come «Governo di Napoli».
Tutte precauzioni che risultarono inutili quando, il 5 giugno 1806, Carlo Maurizio Talleyrand, già vescovo apostata di Autun ed attuale Ministro degli esteri, venne insignito del titolo di Principe di Benevento (mentre il maresciallo Bernadotte diventava Principe e Duca di Pontecorvo, prima di ascendere al trono di Svezia). Il 16 giugno il feudo veniva occupato militarmente, poiché si dovevano evitare «scintille in un paese tanto infiammabile», come affermò Talleyrand, utilizzando lo stesso argomento di Ferdinando IV del 1798; nello stesso giorno l’arcivescovo Domenico Spinucci era costretto – dopo che gli era stata rifiutata udienza da Re Giuseppe – a giurare nelle mani dell’Intendente di Montefusco. A nulla valsero la «rassegnata impotenza e nobile sdegno» con cui il Consalvi scrisse a Napoleone protestando per la violazione «senza titolo» in uno «stato di pace e di amicizia» tra Imperatore e Papa: il Segretario di Stato dette le dimissioni senza impressionare il generale Lanchantin, che entrato in città fece abbattere gli stemmi pontifici, salvo convocare Governatore e Consoli sostenendo di essere giunto con il consenso della Corte romana (falsità che non rassicurò la popolazione la quale, memore delle ruberie giacobine, si riversò al Monte dei Pegni per “spignorare” i propri beni). Ancora una volta il Consalvi spinse il Governatore Zambelli a non compiere atti che potessero far credere ad una accettazione dello status quo e confermò la falsità del preteso accordo tra governo francese e Santa Sede.
Il 28 luglio giunse il primo governatore indicato direttamente da Talleyrand, Alexandre Dufresne Saint-Léon, già alto funzionario sotto Necker, che chiese a tutti un giuramento di fedeltà secondo la formula: «Io giuro fedeltà ed obbedienza a Sua Altezza Serenissima Carlo Maurizio Talleyrand Perigord Principe Regnante, Duca di Benevento mio sovrano». Soddisfatto, sentenziò che quello sarebbe stato il primo giorno della “rinascita beneventana”, promettendo «di impiegare, per la felicità individuale e per la prosperità generale, tutti i mezzi che il Suo sovrano potere e la bontà suprema di Dio potranno somministrargli».
Un entusiasmo che lo stesso Talleyrand (cui si deve il motto «Surtout, pas de zèle») non avrebbe approvato, deciso come era ad utilizzare il titolo all’esclusivo fine del proprio personale arricchimento. Scrive Alfredo Zazo «Cominciava, ad ogni modo, per la travagliata Città un nuovo periodo: qualche riforma iniziata o progettata dal Governo Pontificio sarà mandata a termine; vari utili provvedimenti saranno presi; non pochi abusi si correggeranno, ma un vero rinnovamento mancò». [Zazo 1941, 178]
Il principe ed il Governatore: Talleyrand e Louis de Beer
Nonostante Benevento fosse divenuto ufficialmente «Gran Feudo» dell’Impero Francese, non sarebbero cessate le pretese della corona napoletana, passata dai Borbone ai Napoleonidi (prima Giuseppe Bonaparte, poi Gioacchino Murat), sui territori del Ducato. La decisione di Napoleone di avocarlo a sé e donarlo a un proprio fido venne presentata come mezzo per eliminare gli «antichi motivi di attrito tra il regno e la Santa Sede», ma in realtà scontri e provocazioni continuarono per tutti gli otto anni del Principato di Talleyrand, terminando solo con l’occupazione da parte di Murat (1814) e la successiva restituzione alla Santa Sede (1815).
In questo periodo Benevento fu retta da un ottimo amministratore, l’alsaziano Louis de Beer, che dimostrò assoluta dedizione al proprio compito, totale onestà nella gestione del denaro e tante belle idee che non sempre poterono trovare concreta applicazione: da buon rivoluzionario, il governatore non comprese come alcune innovazioni, che potevano essere accettate in Francia o in Germania, non necessariamente erano adatte all’Italia.
In linea di massima, Beer (il “de” tanto sospirato per nobilitare la propria famiglia e ottenuto alla vigilia della Rivoluzione, era stato poi riposto per evitare “attenzioni” nel periodo del Terrore e quindi ripreso con l’arrivo dell’Impero) fu un attento esecutore delle volontà del Principe, il quale non fece mai visita al suo feudo, interessato più a farlo fruttare che a migliorarne le condizioni, ma ne seguì attentamente la gestione; come per il predecessore Sain-Léon (e a differenza del generale Lanchantin, allontanato da Talleyrand perché tropo autonomo: il Ministro voleva un luogotenente, non un proconsole), quasi ogni singola mossa o parola del governatore era il risultato dei dettami parigini: dal protocollo all’arrivo del rappresentante del Principe alla divisione delle cariche, dai rapporti con il Re di Napoli all’amministrazione della polizia, tutto era mera applicazione dei voleri di un Signore che nessuno avrebbe mai visto (neppure lo stesso Louis de Beer, nonostante lo avesse pregato di essere ricevuto, quando si recò a Parigi per prendere congedo).
Gli storici suddividono il periodo di Talleyrand in due momenti: fino al 1810, quando il Principe riteneva di poter ricavare un utile diretto dal Ducato; e successivamente, quando pensò solo a disfarsene al miglior prezzo possibile. Ciò non significa che non si interessasse effettivamente di apportare (pretese) migliorie, ma lo fece solo al fine di ricavare un maggiore guadagno dalla vendita.
In tal senso la più cocente delusione gli venne dallo scontro con due ecclesiastici: il cardinal Ruffo (evidentemente bestia nera dei Francesi!) e l’arcivescovo Domenico Spinucci. L’attrito con il primo fu di natura economica, con il secondo di carattere politico. Il comandante dell’Armata della Santa Fede, che nel 1799 aveva sconfitto gli invasori giacobini e liberato l’intero Regno di Napoli, fu infatti premiato con la commenda dell’Abbazia di Santa Sofia, la più importante rendita ecclesiastica beneventana (le cui terre, però si trovavano per la maggior parte al di fuori dei confini del Ducato): inutilmente Talleyrand cercò di mettere le mani su un simile tesoro, riuscendo solo a farlo “congelare” per un breve tempo. Poi, Napoleone stesso confermò i diritti del Cardinale e si disse che Ruffo fosse stato l’unico a sconfiggere, in uno scontro diretto, l’ex vescovo di Autun.
Anche nei confronti dell’arcivescovo, Talleyrand non riuscì nel proprio pieno intento: l’arcidiocesi di Benevento (allora ricca di 22 vescovi suffraganei) si estendeva in buona parte del Regno napoletano e per evitare problemi di competenza con il governo partenopeo, il Principe avrebbe voluto ridurla a semplice diocesi, facendo coincidere la sua estensione con quella del Ducato e possibilmente affidandone il governo ad un abate con prerogative vescovili (sulla falsariga di quello di San Gallo, suggeriva). Spinucci resistette, subì anche un periodo di esilio e quindi, sostenuto dalla corte napoletana (nonché, ovviamente, dalla curia romana) riuscì a tornare a Benevento nel pieno delle proprie prerogative, anche se mantenne un atteggiamento di apparente obbedienza verso il Principe.
Talleyrand ispirò comunque al proprio governatore numerose riforme parziali: da un lato uno stravolgimento (senza effetto) del governo, con quattro intendenti (pubblica sicurezza, finanze, servizi pubblici, acque e foreste) a gestire la cosa pubblica; dall’altro la raccomandazione di mantenere i legami con le famiglie più ricche e potenti della città, che dovevano essere impiegate nel governo cittadino affinché, facendone parte, non si mettessero in testa di rovesciarlo. Ecco perché il settore delle finanze venne affidato all’onnipresente marchese Giuseppe Pacca, che a differenza del ben più nobile fratello cardinal Bartolomeo, coerente fino a soffrire il carcere in quel di Fenestrelle (successivamente noto come uno dei “lager” dei Savoia, in quanto vi furono rinchiusi e morirono moltissimi soldati dell’esercito borbonico dopo la resa di Gaeta), fu amministratore di Benevento dal 1798 fino al 1815, passando allegramente attraverso il periodo borbonico, poi giacobino, quindi durante la prima restaurazione, poi sotto Talleyrand e sotto Murat, per rimanere in sella fino al ritorno del Papa. Fu definito un “Talleyrand in sedicesimo”, un baciapile che, «nonostante il breviario ostentato, sarebbe stato pronto a farsi maomettano, in caso di conquista turca, per chiedere il titolo di pascià» [Ingold, 216].
Questo il prototipo dell’uomo nuovo che il governo francese imponeva: ne consegue che le riforme auspicate non potevano che rimanere lettera morta e che, ancora una volta, le principali novità consistettero nel campo dell’urbanistica. Infatti un notevole sforzo venne intrapreso nella manutenzione delle strade cittadine e di quelle esterne principali, allo scopo di agevolare i commerci. Venne realizzata piazza Carlo Maurizio (oggi detta di Santa Sofia), con la fontana e l’obelisco sormontato dall’aquila imperiale (poi sostituita dal triregno, quindi dallo scudo sabaudo ed oggi priva di puntale), furono sciolti molti ordini religiosi e, dallo spoglio dei conventi, realizzati un museo e una biblioteca.
A tal proposito, Louis de Beer affermò la sua essere la prima biblioteca pubblica cittadina. In realtà era stata preceduta dalla raccolta del cardinal Pacca e, sebbene questa fosse un atto di munificenza patrizia e quella del governatore alsaziano l’adempimento di un dovere civico, va sottolineato il fatto che la qualità della biblioteca Pacca era notevolmente superiore: infatti Beer inviava a Talleyrand i pezzi migliori trovati nelle raccolte librarie dei conventi, tratteneva per sé quelli buoni e destinava il resto (per non dire gli scarti) alla biblioteca civica.
Questo fu peraltro uno dei pochi gesti di appropriazione del governatore, che mandava il meglio (anche dei quadri, delle statue e dei reperti archeologici) a Parigi, ma che non si arricchì punto. Anzi, va ricordato come ad un certo punto del mandato fosse costretto a trattenere una certa somma per far fronte alle numerose spese di rappresentanza (soprattutto il continuo via vai di funzionari ed ufficiali napoletani – nonché delle loro truppe – nei confronti dei quali il senso di diplomazia suo e del suo Principe suggerivano la massima cortesia ed ospitalità), ma che si impegnò a rimborsarla chiedendo un prestito al fratello. È da notarsi come l’accettazione di tale somma in restituzione (una vera inezia per l’entrate di Talleyrand) vada ad ulteriore disonore del Principe di Benevento.
Intanto la salute del governatore veniva logorata, soprattutto a causa della tensione dovuta alla costante presenza di bande di insorgenti: circa 10.000 cosiddetti “briganti” (il governatore ne catturò o uccise circa 100) operavano tra il Sabato e l’Ofanto e si spinsero fin sotto le mura di Benevento, facendo temere una rivolta interna (il partito legittimista rialzava la testa ogniqualvolta la situazione sembrava divenire instabile e lo farà costantemente dopo le sconfitte di Napoleone in Russia). Questo costringeva Beer a chiedere spesso l’aiuto dell’esercito napoletano, rendendo difficile lo status di indipendenza rispetto al Regno di Napoli; numerosi furono quindi gli sconfinamenti delle truppe sia sotto Giuseppe Bonaparte che sotto Gioacchino Murat e, mentre il governatore si affannava a mantenere intatta la posizione del Ducato (anzi, avrebbe preteso di allargarlo per farlo coincidere – assai anacronisticamente – con il più ampio territorio riconosciuto nel 1052 dall’Imperatore Enrico III a papa Leone IX, pretesa che parve esagerata allo stesso Talleyrand), il suo Principe cercava di trovare la migliore soluzione per le proprie casse (giustificando l’acuto giudizio di Chateaubriand secondo cui «quando Talleyrand non cospira, traffica»).
Tornando alla usuale amministrazione, va segnalata la riforma del diritto: introdotto (non senza problemi) il Codice Napoleone, istituito un tribunale di prima istanza e uno di appello a Benevento (la maggior parte delle cause venivano discusse a Roma, con aggravio delle spese per i contendenti), creato un registro per le professioni di avvocato, notaio e procuratore (altrimenti esercitate da chiunque lo volesse), abolito il diritto di asilo e istituito un corpo di polizia (guardie d’onore, di pubblica sicurezza, di guardie campestri e di gendarmeria), creato il liceo (nella collegiata dei Gesuiti) e sistemato l’ospedale (già esistente, ma in mano ai Fatebenefratelli, sciolti come gli altri ordini religiosi), introdotto il sistema di misurazione francese, trasformati i conventi in fabbriche.
Beer fu soprattutto mal coadiuvato, a Napoli come a Benevento: abbiamo detto di Giuseppe Pacca, peraltro molto anziano e mal disposto a farsi comandare da un uomo che aveva la metà dei suoi anni; va aggiunto anche Giovani Tomaselli, giudice di polizia, inizialmente considerato il miglior elemento sannita, quindi giudicato così fanatico da dover essere esautorato («a Benevento non c’è scelta – scriverà de Beer in un rapporto – e si è sempre obbligati a passare dai Papisti ai Giacobini») in maniera tanto rocambolesca che lo stesso governatore la definì «un 18 brumaio in miniatura», con riferimento al colpo di stato militare che aveva consegnato il potere nelle mani di Napoleone nel novembre 1799. Al di fuori del Ducato, a parte vuote promesse, non trovò mai un concreto aiuto né nei ministri napoletani (in particolar modo Christophe Saliceti e il marchese di Gallo), né nei funzionari regnicoli – si scontrò duramente con l’intendente del Molise, un fior di “riciclato”: Bertrand Barére, l’«Anacreonte della ghigliottina». Solo la regina Carolina, reggente durante l’assenza di Gioacchino Murat impegnato nella campagna di Russia, ebbe ad elogiare il suo «paternalismo» in un’udienza concessagli e gli promise sostegno, ma si trattò soltanto di belle parole, visto che al ritorno del marito dalla guerra Benevento venne occupata (31 gennaio 1814).
Louis de Beer, malato, si trasferì allora a Napoli dove rimase, illudendosi di ritornare presto al proprio posto. Murat sosteneva di aver ricevuto Benevento grazie ad una concessione imperiale, si protestava pronto a restituire il Ducato, ma cercava intanto di accordarsi con Talleyrand. Le continue pressioni dell’onesto Beer, che rischiava di diventare petulante, non favorivano gli accordi con Murat. Talleyrand, seriamente preoccupato dalla mancanza di rimesse, inviò a Benevento un incaricato per controllare l’andamento dei conti (il tesoriere negligente era Pacca), raffreddò i rapporti con Beer e al Congresso di Vienna non ostacolò il ritorno del proprio feudo allo Stato Pontificio (mantenendone, però, parte delle rendite fino alla propria morte).
Il 15 luglio 1815 fece il suo ingresso in città monsignor Luigi Bottiglia, non più con il nome di Governatore, bensì con il titolo di Delegato Apostolico, sancendo la diretta dipendenza da Roma e la volontà di accordo con l’altro potere cittadino, quello dell’Arcivescovo. Abolite tutte le innovazioni francesi, del periodo di Talleyrand e de Beer di positivo rimase soltanto la piazza con la fontana.
Gianandrea de Antonellis
Bibliografia
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Ingold Auguste Marie Pierre, Benevento sotto la dominazione di Talleyrand ed il governo di Louis De Beer (1806-1815), Ricolo, Benevento 1984
Sacchinelli Domenico, Memorie storiche della vita del Cardinal Fabrizio Ruffo, Controcorrente, Napoli 2005
Viglione Massimo, La Vandea italiana. Le insorgenze controrivoluzionarie dalle origini al 1814, effediffe, Milano 1995
Viglione Massimo, Le Insorgenze. Rivoluzione e controrivoluzione in Italia 1792-1815, Ares Milano 1999
Waresquiel Emmanuel de, Talleyrand: le Prince immobile, Fayard, Paris 2003.
Zazo Alfredo, Il Ducato di Benevento dall’occupazione borbonica del 1798 al Principato di Talleyrand, Miccoli, Napoli 1941.
Zazo Alfredo, Ricerche e studi storici, E.P.S., Napoli 1972.
Zazo Alfredo, Dizionario bio-bibliografico del Sannio, Fiorentino, Napoli 1973.
1 commento
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Giovedì, 14 Novembre 2013 01:48
inviato da Nunzio
bell'articolo, e ben documentato: complimenti!