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Domenico Cattaneo della Volta, contestato aio del Re

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di Giacomo de Antonellis 

 

Le origini della famiglia Cattaneo partono da lontano. Se ne hanno notizie attorno all’anno Mille attraverso una pergamena del monastero ligure di Santo Stefano nel quale si cita un comes (conte) Conradus Primus de Volta, vivente nel 938 con funzioni governative a Genova. I Cattaneo, abili mercanti, abitavano nella calata di Ripa Maris sul Porto vecchio (nota oggi come Calata Cattaneo). In quella speculare arena essi vissero e lavorarono accrescendo di fama e ricchezza[1]. Nel 1528 il governo di Genova – per dare una stabile organizzazione della città attraverso la creazione di ventotto “alberghi”, cinque per la fazione popolare e 23 per quella nobile, tutti dotati di proprio stemma - inseriva la famiglia nell’albergo Grillo che cominciò ad esprimersi con i suoi esponenti in campo religioso, civile e finanziario.

Il cognome fa riferimento a un’antica variante di “capitano”, dignità assegnata da Federico Barbarossa al console genovese Ingo con la nomina a “Cattaneo della corte imperiale” con facoltà di inserire l’aquila imperiale nelle insegne di famiglia, la quale in precedenza veniva semplicemente collegata ai loro interessi commerciali esercitati con fondaci nel Vicino Oriente e con bastimenti che solcavano il Mediterraneo asiatico, e quindi erano appellati “olim de Volta” ovvero “da tempo in Levante”. 

Tra l’altro in tale ambito possedevano un’influenza talmente forte da entrare in parentela con la dinastia degli imperatori bizantini Paleologhi. La prima investitura di una Cattaneo a cavaliere di Malta risaliva al 1435 e ciò dimostra una consolidata nobiltà assai prima della loro trasmigrazione a Napoli[2].

Nel periodo della crisi di bilancio statale a Madrid a causa delle continue guerre nelle Fiandre e con l’Inghilterra, re Filippo II dovette rivolgersi ai banchieri genovesi (che subentrarono ai Függer, impossibilitati ad assumere ulteriori oneri) che gli prestarono il denaro occorrente a mantenere l’esercito garantiti dalle tasse e dai feudi nei territori castigliani. Tardando l’adempimento degli asientos (contratti di prestito) alcune grandi casate di Genova spesso imparentate tra loro - tra cui D’Oria, Imperiale, Serra, Grimaldi, Cattaneo - ritennero opportuno concordare un patteggiamento chiedendo l’appalto delle imposte e (fatto inusitato) l’acquisto agevolato di feudi nell’Italia meridionale: in tal modo il Viceregno di Napoli diventava campo per una nuova e ambita base di interessi economici. E colà spedirono i rampolli più giovani affinché seguissero al meglio la nuova sfera degli affari.

Nel 1643 fu dunque inviato a Napoli il trentenne Baldassarre, figlio di Giovan Battista Cattaneo della Volta e di Maria Maddalena Grimaldi, che per prima cosa acquistava il feudo di San Nicandro nelle Puglie. Morendo poco dopo, nel 1649, l’eredità passava al fratello maggiore Domenico. Costui, bloccato a Genova in quanto senatore e governatore, rimaneva lontano dalla capitale del Viceregno ma, nonostante l’impedimento istituzionale, prendeva a seguire con molto interesse le vicende napoletane al punto da ottenere nel 1650 il titolo di principe di San Nicandro, la decorazione del Toson d’oro e la commenda di San Gennaro. Poco dopo comprava un altro feudo, a Casalnuovo[3]. Nel 1660 decideva finalmente di trasferirsi a Napoli dove visse fino alla morte acquistando sempre maggiore forza politica ed economica, riverito dai sovrani di Madrid che lo elevavano a Grande di Spagna nel 1709 e poco dopo lo nominavano Gran Siniscalco del Regno. Ascritto al sedile di Capuana nel 1718, suo figlio Baldassarre Cattaneo veniva indicato quale “patricio neapolitano ac genuensi”, si faceva vedere nella chiesa di San Giorgio dei Genovesi prima di frequentare quella dei Vergini più vicina alla sua abitazione.

Nessuna meraviglia, dunque, se la discendenza avesse ogni attributo per vivere degnamente nell’ambiente di corte. In questo clima risaltava il nipote omonimo, perfettamente integrato nel mondo di Napoli ove era nato il 20 dicembre 1696. E il giovanissimo Domenico, primogenito di Baldassarre e di Isabella Caetani dei principi di Caserta e duchi di Sermoneta, nel 1717 sposava l’erede del ducato di Termoli Giulia de Capua che partoriva in stretta successione ben quattordici figli nella maggior parte scomparsi in tenerissima età. Alla morte del padre avvenuta nel 1739, Domenico ereditava il titolo di principe con i feudi di San Nicandro, Casalnuovo e Casalmaggiore, che comportavano un reddito di ducati 4.000; questo patrimonio si accresceva poi con i feudi della sposa di Termoli, San Martino e Donna Ritella in Capitanata che davano un altro cespite di circa 1.400 ducati. L’importanza della famiglia non consisteva soltanto nei cespiti. Carlo di Borbone[4]aveva in ottima considerazione il Cattaneo e nel 1740 lo inviava quale ambasciatore a Madrid presso la corte di Filippo V e nel 1742 nominava quale membro della Giunta per la formazione del codice carolino, assieme alla concessione dell’onorificenza del Toson d’oro e al titolo di Grande di Spagna. Finché, salendo sul trono di Madrid, Carlo di Borbone, lo chiamava a far parte del Consiglio di Reggenza affidandogli come primario compito la formazione militare e culturale del piccolo Ferdinando destinato alla sovranità su Napoli. In pratica gli assegnava il compito di tutore legale, anche se comunemente si indica la funzione di aio[5], a dimostrazione di quanta stima il Re nutriva verso la persona di Domenico Cattaneo della Volta, sia sotto il profilo culturale sia sotto quello diplomatico, fattore che diventava motivo di invidia tra tanti cortigiani[6].

Soffermiamoci ancora sul profilo patrimoniale di questo Cattaneo della Volta. Egli disponeva, come detto, di un ragguardevole stato economico che si era accresciuto nel tempo. Nell'anno 1751 poteva acquisire il redditizio feudo di Salza, che comprendeva anche i territori di Volturara, Parolise e Montemarano in Principato Ultra, e il feudo di Pomigliano d'Arco in Terra di Lavoro, ambedue devoluti allo Stato per la morte senza eredi del loro titolare duca Girolamo Strambone: in effetti, più che di un acquisto vero e proprio, si trattava del rimborso di un credito di oltre 200mila ducati che il Cattaneo vantava nei confronti della Corte. I possedimenti in Principato Ultra furono poi venduti, dieci anni più tardi, dal figlio Francesco, cui il padre li aveva fatto donati, al genovese Giovanni Domenico Berio per la somma di ducati 123mila mentre restava legato all’asse famigliare il feudo di Pomigliano d'Arco. Nel 1760 il principe Domenico comprava da Antonio Alvárez de Toledo, marchese di Villafranca e duca di Ferrandina un altro feudo, quello della Duchesca in Napoli, per poco più di centomila ducati. La famiglia possedeva case e palazzi tra cui uno di vaste proporzioni alla Stella ed una bellissima villa[7] intitolata alla moglie Giulia nella deliziosa località di Barra alle falde del Vesuvio, ove il principe di San Nicandro si spegneva il 2 dicembre 1782. La salma venne sepolta nella chiesa di S. Maria della Stella adiacente al palazzo di famiglia in Napoli[8].

Il rapporto tra l’erede al trono borbonico e il suo aio costituisce il punto cruciale della critica al principe di San Nicandro. Va premesso che larghissima parte della storiografia sul personaggio prende le mosse dalle opinioni negative di alcuni suoi contemporanei e avversari, in primo piano lo statista Bernardo Tanucci[9] che si scontrava quotidianamente con la diversa mentalità del Cattaneo.  In seguito alla querelle facevano eco, senza averne approfondito la figura ma soltanto per dispetto ideologico, una serie di scrittori in chiave antiborbonica ai quali il successivo regime dei Savoia ha dato un eccessivo risalto. Di conseguenza il principe Domenico Cattaneo della Volta si addossava tutto il peso degli avversari alla dinastia Borbone. E si sviluppava la leggenda della sua nobiliare superficialità che andava inculcando al giovane Ferdinando negli anni in cui durò il rapporto cioè dal 1759 al 1768. Lo accusavano di tutto: grettezza di mentalità, cultura insufficiente, morale prona al servilismo, disimpegno formativo, interessi personali[10].

All’interno della Reggenza[11] il Cattaneo giocava un ruolo orientato al sostegno della aristocrazia e della Chiesa. Ciò determinava contrasti senza fine con il reggente Bernardo Tanucci che spesso paralizzavano l’attività dell’istituzione di governo. Al loro fianco si ponevano gli altri consiglieri, pariteticamente distribuiti di modo che più volte il consesso non riusciva a deliberare: legati al Cattaneo, benvisto dalla regina Maria Amalia e dalle autorità della Chiesa, erano soprattutto i rappresentanti dell’aristocrazia che puntavano a godere delle grazie del Re; a fianco del primo Ministro si trovavano gli esponenti maggiori dell’apparato giurisdizionale che apprezzavano il suo spirito anticurialista e lavoravano per il disimpegno dall’apparato ecclesiastico. Il Consiglio era  sostanzialmente spaccato in due fazioni e ciò si ripercuoteva sul lavoro di governo[12]. Una delle controversie più faticanti risultò quella dell’antica consuetudine di nominare per il governo delle Province uomini di ceppo aristocratico mentre il segretario di Stato preferiva persone di qualità, militari di carriera o giudici civili. Ciò aveva un risvolto pratico perché la prima categoria aveva maggiore capacità di pressione sulle magistrature cittadine, spesso intrigate da interessi particolari con la nobiltà locale. Non a caso, durante la carestia del 1764, le riserve di grano nei depositi dei feudatari servirono a mantenere alto il tenore della categoria mentre il popolo soffriva la fame. In particolare, il Cattaneo sposò la causa degli Eletti che chiedevano l’alleggerimento dei controlli sull’annona gestita dalle singole Università con occhio favorevole agli interessi finanziari dei nobili, e il Tanucci non mancò di accusare il suo avversario di vendere grano alla Spagna ad un prezzo superiore di quello corrente nel Regno.

Il punto di maggiore contrasto ruotava sulla politica del primo Ministro protesa sulla linea del gallicanesimo d’oltre Alpe. Tanucci impose il controllo governativo sulle entrate di episcopati e abbazie oltre alla soppressione dei conventi e monasteri superflui fino a vietare la cosiddetta manomorta per le proprietà ecclesiastiche. E non si fermò neppure davanti alle nomine vescovile che sottopose al regio exequatur e all’istituto del matrimonio dichiarato contratto civile prima ancora di essere un sacramento della religione cattolica.. Il massimo dell’attrito fu poi raggiunto con l’espulsione dei Gesuiti nel 1767 in sintonia con analogo provvedimento che Carlo III aveva adottato in Spagna: per tale atto papa Clemente XIII dispose la scomunica dell’esponente politico che reagiva prima con l’occupazione temporanea di Benevento e Pontecorvo (storiche enclaves[13]pontificie nel Regno di Napoli) e quindi con l’abolizione del secolare omaggio della Chinea[14].

Tanto per dimostrare che le inclinazioni dell’adolescente verso i divertimenti senza freno e le discusse compagnie dipendessero fatalmente dall’incapacità educativa di un aio anziano e preoccupato di mantenere la propria supremazia a corte più che di incidere sull’animo e sulla capacità del futuro sovrano. Il rapporto tra i due, lo stagionato maestro e lo spensierato re, non fu mai tranquillo: inquieto per natura, l’erede al trono spesso ignorava i moniti del San Nicandro e - avvicinandosi alla maggiore età - fissata in sedici anni - godeva addirittura nel mortificarlo in pubblico creando situazioni di imbarazzo che alla fine costrinsero il principe a dimettersi dalla carica di Gran Ciambellano (alias maggiordomo maggiore) e di conseguenza rinunciare all’incarico regale. L’indole del giovane era ben delineata, e niente affatto remissiva. Inutile diventava ogni lamentazione diretta al re di Spagna[15].

Meraviglia piuttosto il pungente giudizio di Benedetto Croce che non ha tenuto conto della “vivacità” espressa dal futuro Re sempre più ribelle nei confronti del suo tutore, bloccato nel suo pur timido impegno formativo: “Aio famoso per la sua ignoranza e più ancora per l’amicizia che professava all’ignoranza, persuaso come era che ai gentiluomini, e al sovrano dei gentiluomini, convenisse coltivare unicamente le arti cavalleresche, cioè gli esercizi del corpo, l’equitazione, la guida dei cocchi, la caccia e i festini e le partite di campagna, nelle quali dell’abilità acquista in tali arti si poteva dar prova”[16]. In sostanza il filosofo di Pescasseroli sposa in pieno e con cipiglio inequivocabile il quadro tracciato dal Vinciguerra[17] senza peritarsi una qualsiasi giustificazione e senza consultare (fatto inconsueto per il noto rigore di ricerca nell’Uomo) alcune fonti essenziali come l’epistolario e le carte spagnole adagiandosi in larga misura allo schema tracciato dal generale Colletta[18]. Egli infatti, grazie al suo carisma di esule, un secolo prima aveva divulgato ai quattro venti un’opinione tranchant sul regime borbonico e sui personaggi ad esso legati, tra cui appunto il Cattaneo ne costituiva il bersaglio privilegiato. Scriveva dunque Pietro Colletta: “Aio del re lo stesso principe di San Nicandro, onesto di costume, ignorante delle scienze o lettere, unicamente voglioso di piacere all’allievo” per poi precisare con onestà che il Cattaneo si fece probabilmente “persuaso dal Tanucci a non alzare l’ingegno del giovine principe, meglio convenendo a re di piccolo Stato godere in mediocrità di concetti le delizie della signoria”[19]. Più vicino ai nostri giorni e forse assillato da qualche dubbio, Harold Acton ha scelto l’accettazione dell’opinione corrente senza assumersene la responsabilità, evitando di cercare qualche nuova fonte per esplorare le condizioni in cui il tutore doveva procedere nella formazione dell’adolescente candidato al trono: “Tutti concordano nel dire che il suo aio, il principe di San Nicandro, era gretto, ipocrita ed ignorante di tutto fuorché di quello che riguardava i suoi privilegi. Egli era convinto, come allora molti della sua classe, che gli esercizi del corpo fossero più che sufficienti per un gentiluomo, specialmente per un Re”[20]. Infine, sulla stessa linea, prendendo tuttavia un minimo di distanza rispetto ai pregiudizi del passato, ci imbattiamo nella cauta apertura di Giuseppe Galasso - forse dovuta al suo ruolo di editore in quanto presidente della Società napoletana di storia patria – in base alla quale la personalità del Cattaneo ormai avrebbe “cessato di configurarsi come una personalità storica di cui molto si parlava senza che all’ampiezza dei discorsi che si facevano su di lui corrispondesse una conveniente attenzione ai documenti”[21].

Rileggendo adesso alcune trascurate carte, infatti, rileviamo cose apparentemente strane e passate sotto silenzio. In primo luogo il ruolo apparentemente prestigioso ma nello stesso tempo circoscritto esercitato dall’aio nei confronti del pupillo: il quale, raggiunta la maggiore età ed assunta la pienezza del potere, prese ad assumere comportamenti dispotici e discriminatori[22]. In secondo luogo va rilevato che, una volta uscito di scena quale responsabile dell’educazione regale, il Cattaneo aveva perso del tutto la precedente autorità e si sentiva sminuito nel proprio ruolo[23]. Sul blasone del principe spiccavano le benemerenze, ma adesso quelli che erano rimasti in silenzio per nove anni lo accusavano di nullità politica, di ignoranza, di esprimersi in dialetto e persino di avarizia. Nel primo caso (l’incompetenza politica e giuridica) appare allora stravagante la decisione del Re nel nominarlo alla presidenza della Commissione creata per la compilazione del Codice carolino, come risulta da fonti al di sopra di ogni sospetto[24]. Sul secondo versante (la sussurata ignoranza) come si spiegano la sua dedizione ad abbellire con grande senso estetico le proprie residenze, a dotarle di biblioteche e quadreria, la creazione di un sito di delizia per la villeggiatura della famiglia? Quanto al parlare abitualmente in napoletano si potrebbe obiettare che a quei tempi tutti usavano il dialetto nei rapporti famigliari e locali: così piemontesi liguri lombardi e veneti prediligevano le loro parlate rispetto all’italiano che entrava nell’uso generalizzato soltanto dopo l’Unità: del resto lo stesso abate Galiani aveva teorizzato la supremazia della lingua napoletana, auspicando la sua adozione nell’intera penisola[25]. Sull’ultimo punto, risultano a discolpa i numerosi lasciti a favore di conventi e chiese fino alla donazione di opere d’arte per il tempio della Stella in Napoli e per il S. Michele di Anacapri[26].

Certo, egli era consapevole di avere scarsa cultura, di avvertire distacco mentale dalla letteratura e dalle scienze, di restare indifferente verso l’astronomia e la matematica, poco incline alla musica e alla pittura, ma nello stesso tempo conosceva a fondo le regole della cavalleria e dell’arte equestre, nutriva passione per gli esercizi fisici e per la vita all’aria aperta, coltivava le passeggiate e le battute di caccia, sapeva tirar di spada. Del resto questo era il compito principale al quale re Carlo lo aveva assegnato. Quasi un ordine che più volte ribadiva nell’epistolario con il San Nicandro, farlo divertire e non impegnarlo con sforzi mentali: “No deseo sino que lo [h]aga muchissimo” (Non desidero altro se non che lo faccia moltissimo). Seguendo tali disposizioni, l’aio badava soprattutto allo sviluppo fisico del pupillo pur nulla trascurando per dotarlo di formazione completa. E a tale scopo si era impegnato nella ricerca di maestri in grado di inculcargli le virtù intellettuali a cominciare dalla religione la cui cura veniva seguita da monsignor Benedetto Latella, canonico lateranense e teologo. Il gesuita padre Francesco Cardel insegnava al principe ereditario latino, storia, francese e tedesco, mentre al matematico Nicola De Martino veniva assegnato l’insegnamento aritmetica geometria e fisica. I risultati furono scadenti in ogni materia ma la colpa non poteva ricadere sul Cattaneo.

La raggiunta maggiore età di Ferdinando poneva fuori dal gioco l’anziano precettore ma non lo escludeva dal suo ruolo politico presso la Real Casa. E l’ultimo suo impegno consistette nel preparare le feste per l’arrivo di Maria Carolina d’Austria sposata per procura dal Borbone il 7 aprile 1768. Venne deciso che il Re andasse a riceverla al confine pontificio di Terracina, accompagnato da un folto stuolo di dame e cavalieri tra cui appunto il Cattaneo; il corteo si sarebbe poi spostato a Caserta per il pernottamento e una sosta di qualche giorno prima di entrare in Napoli il 22 del mese e dare il via alle feste pubbliche. Nell’occasione San Nicandro subiva l’affronto di vedere la nuora, duchessa di Termoli, preceduta nel cerimoniale dalla marchesa Tanucci per disposizione del giovane sovrano che in tal modo si toglieva ancora una volta si divertiva a mortificare il suo ex-aio. Il principe se ne lamentava con Carlo ricevendo però soltanto un vago conforto (“te compadezco”, ti sono vicino). Compresa l’antifona, San Nicandro scrive di nuovo chiedendo di lasciare la carica di Maggiordomo maggiore e la risposta dall’Escurial non tarda: il Re accorda “el permiso de poderte retirar... asegurándote nuovamente que estoy muy satisfecho de cómo nos has servido siempre” (con il permesso del ritiro, il Re agli da testimonianza di essere stato sempre molto soddisfatto del modo in cui egli l’ha servito)[27]. Alla richiesta formale, presentata il 22 novembre 1768 attraverso il segretario di Stato Tanucci, re Ferdinando risponde positivamente con altrettanta rapidità garantendo il mantenimento di “tutti gli onori, soldi, pensioni, che gode  presentemente”. E con questi attestai il principe di San Nicandro si ritira nella villa di Pietrabianca dalla quale prosegue per ben tredici anni la corrispondenza con re Carlo - nel complesso sono 397 le lettere giunte a Napoli, conservate nell’Archivio privato San Nicandro in cinque volumi - e nella terra di Barra riceve il 25 ottobre 1776 la novella della giubilazione del Tanucci.

L’ultima annotazione riguarda l’arma araldica dei Cattaneo della Volta nel ramo napoletano di San Nicandro che si è andato sviluppando a partire dal principe Domenico. Lo stemma, sormontato dalla corona di principe, presenta fasce alternate d’argento e d’azzurro su cui è caricata un’aquila nera ad ali spiegate, sotto la quale al centro dello scudo è posto vede un palo troncato con croce d’argento in campo rosso (Paleologo) ai cui estremi si affrontano quattro lettere B mentre più sotto il tronco si chiude con bande traversali d’argento e di rosso (della Volta). Il ripetuto segno alfabetico B sta a rammentare le antiche virtù o benevolenze della casata che la tradizione famigliare[28] identifica in “Buona fama, Bontà, Bellezza, e Beneficenza”.

Bibliografia

Harold Acton, I Borboni di Napoli, Martello editore, Milano 1968.

Raffaele Altavilla, Breve storia di Napoli dalla sua fondazione ai nostri giorni, Stabilimento tipografico dell’Unione, Napoli 1880.

Luigi Cattaneo di S. Nicandro, Brevi cenni in difesa di un napoletano di due secoli fa, sta in “Archivio storico per le province napoletane”, Società napoletana di storia patria, Napoli 1964.

Benedetto Croce, Storia del Regno di Napoli, Laterza editore, Bari 1958.

Nicola della Monica, Le grandi famiglie di Napoli, Newton & Compton, Roma 1998.

Umberto Caldora, I Borboni di Napoli e i loro tempi, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1964

Pietro Colletta, Storia del Reame di Napoli (a cura di Nino Cortese), Sansoni editore, Firenze 1962.

Francesco Giusso, Un genovese a Napoli. Luigi Giusso Duca del Galdo, Di Mauro editore, Cava dei Tirreni 2010.

Carlo Knight, Carteggio San Nicandro - Carlo III. Il periodo della Reggenza 1760-1767, tre volumi, Società napoletana di storia patria, Napoli 2009.

Carla Russo, Domenico Cattaneo principe di San Nicandro, sta in “Dizionario biografico degli italiani”, volume XXII, Istituto dell’Enciclopedia Treccani, Roma 1979.

Michelangelo Schipa, Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, Milano-Napoli 1923.

Mario Vinciguerra, La reggenza borbonica nella minorità di Ferdinando IV, sta in “Archivio storico per le province napoletane”, Società napoletana di storia patria, Napoli 1915. 

Enrica Viviani della Robba, Bernardo Tanucci e il suo importante carteggio, tre volumi, Sansoni editore,  Firenze 1942.

 

Discendenza di Domenico Cattaneo della Volta

 

Giovanni Battista Cattaneo della Volta, figlio di Domenico, nato e morto a Genova, sposo di Maria Maddalena Grimaldi da cui ebbe sei figli:

Ottavio, ammogliato con Livia Grimaldi Oliva.

Antonio, sposo di Livia di Torres.

Girolamo, gesuita, segretario dell’Ordine e storico di Genova.

Baldassarre, nato a Genova 1613, principe del feudo di San Nicandro che comprò nel 1643 e alla sua morte a Napoli nel 1649 passò nelle mani del fratello Domenico.

Livia, che sposò Giovanni Battista Centurione.

 

Domenico, senatore e governatore di Genova, nato a Genova attorno all’anno 1610, trasferito nel 1660 a Napoli per amministrare il feudo di San Nicandro al quale aggiunse poco dopo anche il feudo di Casalnuovo, morto a Napoli nel 1686. Ebbe due mogli, Maria Serra e Vittoria Spinola.          

Dalla prima moglie nascevano due figli:

Girolamo, entrato nell’Ordine dei gesuiti;

Filippo, che sposava Angela De Franchi avendo cinque figli: Baldassarre il feudo di San Nicandro di cui, alla scomparsa di quest’ultimo nel 1702, divenne titolare lo zio Baldassarre; e altri quattro che preferirono tornare nella città degli avi assumendo prestigiose funzioni: Carlo Ambrogio, fattosi gesuita seguendo le orme dello zio Girolamo, religioso di grande fama, teologo e scrittore di cose sacre; Giovan Battista e Carlo, senatori della Repubblica di Genova; Giovanni, doge della Repubblica di Genova.

Dalla seconda moglie nascevano:

Baldassarre, gentiluomo di re Carlo III e Grande di Spagna nel 1709, sposò il 4 giugno 1718 la nobile Isabella Gaetani de’ principi di Caserta e duchi di Serrmoneta, da cui:

Eugenia, sposa a Carlo Caracciolo duca di Airola e conte di Biccari.

Francesco, sposo di Beatrice Bilotta.

Anna, sposa di Bartolomeo de Capua conte di Montuoro.

 

Domenico (Napoli, 20 dicembre 1696 – Barra 2 dicembre 1782) sposò a Napoli il 4 agosto 1717 Giulia de Capua, principessa di Roccaromana  (Termoli, 3 luglio 1701 – Napoli, 6 maggio 1763) da cui nascevano quattordici figli:

Vincenzo, nato il 24 marzo 1720, presumibilmente morto in tenera età.

 

Francesco, nato il 23 maggio 1721 (per la sua successione, vedere più avanti).

Maria Rosa, monaca in San Giovanni Battista di Napoli.

Maria Amalia, monaca in San Giovanni Battista di Napoli, morta il 29 luglio 1751.

Isabella, 24 settembre 1722.

Giovanni Battista, 16 marzo 1724, presumibilmente scomparso in tenera età.

Ippolita, nata il 3 novembre 1725 andata sposa a Adriano Carafa duca di Traetto e di Forlì.

Pasquale, nato nel 1726 e presumibilmente scomparso in tenera età.

Pietro, nato il 13 settembre 1727, presumibilmente scomparso in tenera età.

Maria Eugenia, nata il 2 settembre 1728.

Maria Vittoria, nata il 21 luglio 1730.

Bartolomeo, nato il 8 aprile 1732, presumibilmente scomparso in tenera età.

Antonio, nato il 15 marzo 1735, presumibilmente scomparso in tenera età.

Carlo, presumibilmente scomparso in tenera età.

Francesco, nato il 23 maggio 1721 (vedi più avanti). ambasciatore del Re di Napoli a Vienna nel 1773, scomparso il 4 maggio 1790; aveva impalmato due mogli, Caterina Acquavivad’Aragona, e Maria Buoncompagni Ludovisi de’ principi di Piombino e duchi di Sora.

 

Dalla seconda moglie nascevano:

Augusto, Napoli 1751-1824, gran Siniscalco di re Ferdinando, consigliere di Stato e ministro plenipotenziario in Francia e Spagna, sposato con Teresa Colonna de’ principi di Stigliano, dama di corte, da cui ebbe undici figli:

Gennaro, di cui si ignorano i dati biografici, maggiordomo del Re delle Due Sicilie.

Anna, sposa nel 1771 Giuseppe Guevara Suardo, duca di Bovino.

Maria Antonia, sposa nel 1773 Vincenzo Imperiali, marchese di Laviano.

 

Francesco, nato nel 1774 e morto nel 1833 (per la sua successione, vedere più avanti).

Domenico, generale dell’Esercito delle Due Sicilie, sposa nel 1825 la nipote Teresa Cattaneo, figlia del fratello maggiore Francesco, senza eredi.

Gaetano, cavaliere di Malta, sposa Luisa Cavalcanti de’ duchi di Buonvicino, senza eredi.

Ignazio, morto nel 1853, dopo aver sposato Teresa Lanza.

Giulia, nata attorno al 1780 e morte nel 1852, sposata nel 1800 con Giovanni Milano Franco d’Aragona, principe di Ardore.

Antonia, sposa di Fieschi Ravascieri duca di Roccapiemonte.

Maria, nata nel 1778 e scomparsa nel 1836, sposa nel 1798 con il duca Giovanni Riario Sforza da cui ebbe il figlio Sisto, cardinale e arcivescovo di Napoli.

Giovanna , nata nel 1789, e sposa dal 1819 di Aspreno Colonna Doria, duca di Paliano.

 

Francesco, nato nel 1774 e morto nel 1833, Grande di Spagna e cavaliere del Toson d’oro, sposa nel 1796 donna Anna Maria Doria de’ principi di Angri, da cui nascevano:

Teresa, nata il 23 luglio 1798, dama di corte della Regina, sposata allo zio Domenico.

Giovanna, nata nel 1799, sposa nel 1825 Nazario sanfelice duca di Bagnoli.

Antonia, scomparsa nel 1955, sposa di Domenico Leognano Fieramosca de’ duchi di Alamo.

Maria, nata il 22 aprile 1802 e scomparsa il 31 dicembre 1855, nubile.

Francesca, badessa nel Monastero di S. Chiara in Napoli, scomparsa il 31 dicembre 1891.

 

Mariano Augusto, Napoli 31 marzo 1797 – Portici 18 settembre 1860, sposa il 30 settembre 1837 donna Ippolita Sanfelice dei duchi di Bagnoli (Barra 15 giugno 1809 – Napoli 19 maggio 1892), da cui nascono tre femmine e tre maschi:

Anna Maria, sposa del marchese di Fuscaldo, Ricciardi.

Francesca, sposa di Placido Bonanno, principe di Linguaglossa.

Giulia, di cui non si hanno notizie biografiche.

Francesco 1844 (vedere linea A)

Alfonso 1848(vedere linea B)

Luigi 1850(vedere linea C)

 

Linea A – Francesco 1844

Francesco, nato a Napoli il 2 marzo 1844 e ivi scomparso il 29 novembre 1875, sposa a Napoli il 27 aprile 1867 donna Agnese Caracciolo (Caserta 24 aprile 1843 – Napoli 15 settembre 1914, figlia del duca Emanuele Caracciolo di S. Vito, eroe a Gaeta ove moriva nella difesa di re Francesco II), da cui ha una femmina e tre maschi:

1) Anna, nata il 15 gennaio 1871.

2) Giulio, nato il 24 settembre 1874 e morto l’8 ottobre 1911, sposato con Bianca  Caprioli, non risultano figli.

3) Mariano Augusto, nato a Napoli il 18 marzo 1869 ed ivi morto il 7 aprile 1950, sposa a Napoli il 27 giugno 1892 Matilde Patamia (Napoli 10 luglio 1879 – 29 aprile 1948), da cui quattro figlie femmine:

Ippolita, Napoli 28 febbraio 1897 – Imperia 30 giugno 1988, sposata con il principe Francesco Barberini.

Maria, Napoli 20 novembre 1901, scomparsa in tenera età.

Giulia, Napoli 15 aprile 1904 – 6 gennaio 1973, sposa il 29 ottobre 1932 il marchese Roberto Mottola di Amato.

Elena, Napoli 9 maggio 1906 – 5 aprile 1988, sposa a Napoli il 6 marzo 1936 Marco Rossi Genoese.

4) Francesco, figlio di Augusto, nato postumo a San Giorgio a Cremano il 2° maggio 1876 e scomparso a  Napoli il 21 agosto 1953, sposa a Napoli il 19 ottobre 1895 donna Felicia Giusso del Galdo (Napoli 17 ottobre 1871 – 20 dicembre 1959), da cui:

a) Margherita, nata a Bagnoli 29 agosto 1896 – scomparsa ? , sposa il 21 ottobre 1926 a Sorrento il cavaliere Michele Ciampa (Sorrento 18 febbraio 1895 – ivi 26 dicembre 1936).

b) Emmanuela, nata a Napoli il 16 febbraio 1898 ed ivi scomparsa il 15 luglio 1988, sposata dal 1° giugno 1922 con il conte Raffaele Collenea Isernia patrizio di Benevento (detto Fael, Benevento 17 marzo 1891 – Pomezia 11 dicembre 1972).

c) Corrado, nato a Napoli il 21 maggio 1900 ed ivi scomparso il 7 ottobre 1988, dottore in giurisprudenza, sposa a Napoli in prime nozze il 7 aprile 1923 Anna Bruno dei baroni di Belmonte (Ispica 29 agosto 1895 – Napoli 25 settembre 1974) e in seconde nozze il 15 dicembre 1975 Maria Antonietta Boscarelli, nata a Bisignano il 9 marzo 1923 - ?, vedova del cugino don Carlo Cattaneo della Volta (per la successione di Corrado, vedere più avanti).

d) Laura, nata a Vico Equense il 27 luglio 1903 e scomparsa a Sacile il 5 novembre 1944 a causa di un bombardamento aereo che stermina l’intera famiglia, con il marito, sposato nel 1929 a Napoli, colonnello Franco Diuccio (Napoli 31 ottobre 1885 - Sacile 5 novembre 1944) e sei figli: uno soltanto si salvò.

e) Mario, nato a Vico Equense il 6 settembre 1905 e scomparso a Napoli nel 1993, sposato in prime nozze a Genova il 22 giugno 1933 con Alma Matteucci (Genova 1911 – ? ) da cui ebbe Maria José (Napoli 16 aprile 1934 -  2013 ?) e in seconde nozze a Napoli il 7 gennaio 1963 con Paola Ferrante dei marchesi di Ruffano (Napoli 23 settembre 1926) da cui nascono Oria (Napoli 3 settembre 1964 - ? ) e Despina (Napoli 25 settembre 1969, dal 22 settembre 2008 moglie di Paolo Pacella).

 

Dal primo matrimonio di Corrado, detentore del titolo di San Nicandro, nascono:

a) Fabio, Napoli 26 marzo 1924 - 11 marzo 1986, sposa a Catania il 24 aprile 1952 donna Francesca Bonaccorsi dei principi di Reburdone (Catania 18 giugno 1924 -  ? ) da cui:

Corrado, nato a Catania il 16 febbraio 1953 e ivi scomparso il 6 giugno 2011,

Francesco, nato a Catania il 26 giugno 1954; Alessandro, nato a Catania il 28 maggio 1960.

b) Felicia, detta Licia, nata a Napoli 14 febbraio 1927 ed ivi scomparsa il 9 dicembre 2002, che sposa a Napoli il 26 giugno 1945 il barone Francesco Compagna.

c) Francesco, Napoli 7 maggio 1928, sposa a Napoli (o Milano?) il 27 maggio 1961 Mirella Piccinelli, da cui: Simonetta, nata a Milano il 14 aprile 1962 e sposata il 27 maggio 1992 con Benedetto Habib; Manuela, nata a Milano il 20 marzo 1964 e sposata il 14 dicembre 1996 con Luigi Grella.

d) Pietro, nato a Napoli il 29 luglio 1932 ed ivi scomparso il  ?

e) Cesare, nato a Napoli il 29 settembre 1933 ed ivi scomparso il 26 dicembre 1988, sposa il 16 maggio 1964 Mirella Spaggiari, da cui nascono due maschi:

Mariano Augusto (Napoli 19 novembre 1964, sposato con ?, figli ?).

Giovanni (Napoli 8 novembre 1966 –  ? agosto 2003, sposato con ? , figli ?).

f) Enrico, nato a Napoli il 26 ottobre 1937 ed ivi scomparso il 29 luglio 2003, sposa a Napoli il 6 giugno 1964 Liliana Pepe, da cui nascono due femmine:

Anna Maria, nata a Napoli l’8 marzo 1965, che sposa il 9 settembre 2002 Francesco Tommasini Mattiucci.

Alessia, nata a Napoli il 25 aprile 1967.

Licia, nata a Napoli il 25 marzo 1975, che sposa il 3 ottobre 2003 Annibale Puca.

 

Linea B Alfonso 1848

Alfonso (Napoli 22 ottobre 1848 – 28 giugno 1927) sposa a Napoli il 21 aprile 1878 donna Caterina Pignone del Carretto (Napoli 20 novembre 1852 – 8 gennaio 1942), da cui tre figli:

1) Augusto (Napoli 5 aprile 1877 – 9 novembre 1955) sposa a Sinigallia il 18 ottobre 1903 Ida Tarsi (Sinigallia 1883 - ?) da cui tre eredi:

a)  Giancarlo, nato a Roma 14 settembre 1940, ivi sposa il 5 marzo 1967 Gianna Graziella Guidi, che hanno quattro figli: Corrado (Napoli 8 settembre 1967, sposa Rosetta Corarelli a Roma il 18 settembre 1994); Carlo (nato a Roma il 19 febbraio 1968); Claudia (Roma 25 aprile 1971) e Cristina (Roma 30 dicembre 1972).

b) Riccardo (nato a Roma il 22 marzo 1946 che sposa il 1° maggio 1975 Salvatorica Brundu, e generano due figli: Augusto (Roma 26 aprile 1976) e Irene (Roma 24 dicembre 1979).

c) Enrico (Roma 28 giugno 1952, ivi sposa il 6 febbraio 1971 Maria Enrica Monzone, da cui due figli: Marina (Roma 17 luglio 1971) e Marco (Roma 30 gennaio 1981).

2) Giuseppe (Napoli 21 novembre 1884 – ivi scomparso il 25 gennaio 1964) abate e custode del Tesoro di S. Gennaro in Duomo.

3) Carlo (nato a Napoli il 17 agosto 1889 ed ivi scomparso il 16 marzo 1974, sposa in prime nozze il 27 novembre 1914 Adelaide Sollo (morta a Napoli il 2 dicembre 1963) e in seconde nozze Maria Antonietta Boscarelli (vedere anche alla voce Corrado 1900-1988). Dal primo matrimonio:

a) Giuseppe (Napoli 20 dicembre 1920 – ivi morto il 23 luglio 2003) che sposa a Napoli il 18 febbraio 1952 donna Adriana de Vito Piscicelli Taeggi (Cava dei Tirreni 1° settembre 1925 – Napoli 3 febbraio 2009) da cui due figli: Fabrizio (Napoli 15 agosto 1953 che il 5 aprile 1985 sposa a Port-au-Prince Margaret Caprio da cui ha tre figli tutti nati a Napoli, Carlo Andrea (11 aprile 1988), Francesco (15 dicembre 1989) e Federico (18 dicembre 1992).

b) Margherita (Napoli 13 febbraio 1956).

 

Linea C Luigi 1850

Luigi, nato a Napoli il 1° ottobre 1850 ed ivi scomparso il 5 gennaio 1938, che sposa a Napoli il 9 marzo 1872 Pauline Cadet (Poitiers 1° agosto 1847 - Napoli 24 marzo 1919) da cui nasce il figlio:

Augusto, Napoli 16 ottobre 1874 – Teano 23 agosto 1943, che sposa in Roma il 21 luglio 1902 donna Maria de Vito Piscicelli (Poitiers 28 novembre 1876 – Napoli 6 marzo 1967) con cui genera:

Luigi, Napoli 4 maggio 1903 – ivi 3 gennaio 1984, che l’11 febbraio 1953 prende in moglie donna Anna Pia Colonna di Stigliano (Napoli 20 aprile 1920 -? ) dalla quale ha due figli:

a) Augusto, nato a Napoli il 1° maggio 1955, sposato con Isabella Falco l’11 settembre 1982 (hanno quattro figli, tutti nati a Napoli: Luigi il 31 maggio 1983; Maria Giovanna il 16 ottobre 1986; Emanuele il 26 giugno 1990 e Beatrice il 19 febbrario 1998.

b) Maria, nata a Napoli l’11 maggio 1958, che nell’ottobre 1990 sposa Sergio Gobbi.



[1] Va ricordato che in Liguria i cittadini patrizi e benestanti non puntavano al possesso di feudi ma fondavano la propria superiorità esclusivamente sulle capacità mercantili armando velieri che solcavano il Mediterraneo con le loro merci e con la scorta di soldati per respingere gli assalti dei pirati turchi e saraceni.

[2] Nicola della Monica, Le grandi famiglie di Napoli, Newton & Compton editori, Roma 1998, pag. 143.

[3] In proposito: Carla Russo, Domenico Cattaneo principe di San Nicandro, sta in “Dizionario biografico degli italiani”, volume XXII, Istituto dell’Enciclopedia Treccani, Roma 1979.

[4] Aio è termine desueto nella lingua italiana. Proviene dall’etimo gotico hagia, in spagnolo ayo, che indica l’istitutore addetto alla formazione dei fanciulli e dei giovani nelle famiglie di ceto elevato per evitare l’affido dei propri figli a scuole pubbliche o religiose.

[5] Carlo di Borbone (1716-1788, figlio di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese duchessa di Parma) regnò sul trono meridionale dal 1734 al 1759; alla morte del padre assunse la corona di Madrid affidando il Regno di Napoli ad un Consiglio di Reggenza durante la minore età del figlio Ferdinando il Regno di Napoli. Sua moglie Maria Amalia di Sassonia nacque a Dresda nel 1724, arrivò a Napoli per il matrimonio con il Borbone nel 1738 e scomparve non ancora all’età di trentasei anni nel 1760 a Madrid.

[6] Su questo aspetto occorrerà scendere più avanti nei particolari per evidenziare lo stato d’animo negativo nei confronti del Cattaneo che circolava in certi ambienti di Palazzo. Luigi Cattaneo di S. Nicandro, Brevi cenni in difesa di un napoletano di due secoli fa, sta in “Archivio storico per le province napoletane”, Società napoletana di storia patria, Napoli 1964.

[7] Stupenda residenza estiva circondata da un vasto giardino all’italiana, sopravvive tuttora nella sua monumentale unicità a Barra in una frazione chiamata Pietrabianca ove Carlo V soggiornò profittando dell’ospitalità del gentiluomo Bernardino Martirano, segretario del Regno, quando si recò a visitare Napoli nel 1535 dopo soste in Sicilia e Calabria: Giacomo de Antonellis, Pietro di Toledo. Il Gran Viceré, Club di Autori indipendenti, Milano 2008, pag. 27. Il disegno di questa “!villa di delizia” viene attribuito a Luigi Vanvitelli ma la costruzione fu eseguita dai suoi figli Pietro e Carlo con la collaborazione di Francesco Collecini nel 1762; nel 1886 intervenne l’architetto Nicola Breglia che ampliò il complesso sistemando in modo diverso il giardino e aggiungendo un emiciclo di ingresso; la proprietà, per volontà della principessa Giulia Cattaneo Pignatelli, dama di corte presso Casa Savoia, fu trasmessa negli anni Venti del secolo scorso a Diego de Gregorio di Sant’Elia in quanto, essendo rimasta vedova e senza figli, ritenne di affidare in mani sicure questo patrimonio: il patto di adozione prevedeva soltanto la clausola di aggiungere al proprio cognome quello dei Cattaneo, come infatti è avvenuto.

[8] Purtroppo, a causa di un bombardamento aereo con seguito di incendio che colpì la bella chiesa nel 1944, il magnifico busto marmoreo, opera dello scultore Giuseppe Sammartino (1720-1793), e l’annessa iscrizione sepolcrale che adornavano l’antisacrestia sono andati distrutti.

[9] Bernardo Tanucci (Stia, presso Arezzo, 1698 - Napoli, 1783, quindi quasi coetaneo del Cattaneo) ha lasciato chiare tracce della sua posizione laicista e anticurialista, l’esatto contrario dello spirito che animava il principe di San Nicandro. Di origine toscana il Tanucci era giunto a Napoli dietro suggerimento del granduca Gian Gastone de’ Medici a Carlo di Borbone. Assumendo la carica di primo Ministro, in effetti si rivelò uomo di polso e politico vigoroso.

[10] L’opera di denigrazione iniziò con un rivoluzionario francese, tale Jean Blanc de Voulx che nel suo Coup d’oeil politique sur l’Europe à la fin du XVIII siecle, Parigi 1800, aveva attribuito al principe napoletano, per sentito dire, una éducation si negligée senza aggiungere altri particolari. Giudizio sostenuto poi anche dal siciliano Michele Palmieri di Micciché, detto il “barone pazzo”, nei suoi Pensée set souvenirs historiques et contemporaines scritti a Ginevra nel 1830 (“il  duca era un grande imbecille ed una parvenza di aio”: giudizio riproposto nel volume a cura di Umberto Caldora, I Borboni di Napoli e i loro tempi, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1964). Questa tesi venne poi ripresa da Pietro Colletta che nutriva un’acredine specifica per parlare male del Borbone. Non vale la pena citare le chiacchiere dei vari Giuseppe Gorani, Alessandro Dumas padre e Giovanni La Cecilia (alla maniera di un odierno Travaglio) perché frutto esclusivo di giornalismo scandalistico e di informazione privo di seria ricerca.

[11] Il Consiglio di Reggenza era formato da dieci gentiluomini di Corte, selezionati dallo stesso re Carlo: Domenico Cattaneo principe di San Nicandro  e gran ciambellano, Michele Reggio capitano generale delle truppe marittime, marchese Fogliani d’Aragona viceré di Sicilia, Jacopo Milano marchese di San Giorgio e principe di Ardore, Giuseppe Pappacoda principe di Centola, Pietro Bologna principe di Camporeale, Domenico di Sangro duca di Martina e capitano generale dell’esercito, Stefano Reggio principe di Jaci e Campofiorito, Lelio Carafa marchese di Arienzo e comandante delle guardie del corpo, marchese Bernardo Tanucci primo ministro e segretario di Stato (da Notizie civili de’ tempi per uso dell’anno MDCCLX, Stamperia del Regno, Napoli 1760).

[12] In teoria il potere era ripartito ugualmente tra tutti i consiglieri. In pratica due uomini dominavano la Reggenza, il Tanucci che aveva l’appoggio della corrente prettamente governativa e il Cattaneo che godeva dei favori della corte. Almeno tre membri (San Nicandro, Fogliani e San Giorgio) facevano muro perché pensavano cose assai diverse da quelle del primo Ministro e segretario di Stato, specialmente in materia ecclesiastica.

[13] Con il termine franceseenclave (sotto chiave) si indica un territorio situato all’interno di uno Stato, unito ad esso sotto il profilo linguistico, ma politicamente separato in quanto soggetto ad altra entità statale: tipico esempio,  Campione d’Italia che si trova in una regione come il Ticino sotto la piena sovranità svizzera.

[14] Si trattava di un cavallo bianco - detto appunto Chinea -con gualdrappa sulla quale veniva posta una borsa con monete d’oro. Il Re di Napoli usava presentarla al Papa ogni due anni in segno di vassallaggio, in base ad una tradizione nata con l’infeudamento degli Angiò nel Regno meridionale. In proposito Giacomo de Antonellis, Storia di una borsa d’oro e di un cavallo bianco, sta sulla rivista “L’Esopo”, Milano giugno 1987.

[15] A tale proposito ampia è la documentazione curata da Carlo Knight, Carteggio San Nicandro - Carlo III. Il periodo della Reggenza (1760-1767), tre volumi, Società napoletana di storia patria, Napoli 2009.

[16] Benedetto Croce, Storia del Regno di Napoli, Laterza editore, Bari 1958, pag. 197. Questo passo sembra in chiaro contrasto con la descrizione di Raffaele Altavilla, Breve storia di Napoli dalla fondazione ai nostri giorni, Stabilimento tipografico dell’Unione, Napoli 1882, ove a pag. 239 si offre una lettura diversa del rapporto aio-adolescente, attribuendo l’insufficienza dei risultati al carattere vago del giovane e non all’incapacità del maestro: “Ferdinando fanciullo consumava molte ore del giorno negli esercizi e diletti, e svagava la mente dagli studi. Gli uomini di più fama e dottrina erano suoi maestri ma ora il tempo, ora mancando il valore, nessuno o raro l’insegnamento. Giovinetto non soffriva conversare coi sapienti, e fatto adulto ne vergognava; godeva mostrare o narrare come sapesse abbattere cigniali o cervi, colpire a volo uccelli, frenar destrieri, esser saggissimo alla pesca, primo alla corsa. L’attitudine a quegli esercizi, la forza, il vivere dissipato, i gusti plebei divennero ambizione dei soggetti, e tanto più dei nobili, compagni al re e da lui ammirati nella corte... Impaziente delle funzioni della mente, fastidiva i consigli di Stato, raro li chiamava, presto li distoglieva”.

[17] “In verità il Re volgare e bonaccione [venne] educato dal vecchio e ignorante principe di San Nicandro...”: così Mario Vinciguerra, La reggenza borbonica nella minorità di Ferdinando IV, in “Archivio storico per le province napoletane”, Società napoletana di storia patria, Napoli 1915, pag. 140. Vinciguerra si richiama anche al giudizio di storici minori quali Michele Rossi (Nuova luce risultante dai fatti avvenuti in Napoli prima del 1799, Tipografia Barbèra, Firenze 1890, pag. 265: “l’uomo più ignorante che allora fosse in terra”) e Cosimo Losurdo (Tanucci e la Reggenza al tempo di Ferdinando IV, Tipografia Trizio, Bari 1911, pag. 16: “inetto, ipocrita, il più superstizioso in corte”).

[18] Uomo politico e storico (Napoli 1775 - Firenze 1831) egli aveva assunto rilevanti uffici a servizio della dinastia  Borbone: comandante generale in Sicilia e ministro della guerra durante la rivoluzione del 1821; per contrastanti visioni con la Corte fu costretto ad allontanarsi dal Regno riparando nella città dell’Arno ove scrisse una Storia di amplissima risonanza e più volte stampata.

[19] Pietro Colletta, Storia del reame di Napoli. I brani qui citati sono tratti da pag. 87 dell’edizione 1962.

[20] Harold Acton, I Borboni di Napoli, Martello editore, Milano 1968, pag. 128.

[21] Prefazione, pag. III, di Giuseppe GALASSO all’opera di C. Knight, op. cit., sul Carteggio tra il principe di San Nicandro e il re di Spagna.

[22] Il nunzio pontificio, cardinale Domenico Orsini d’Aragona, riferiva alla Santa Sede dopo il 12 gennaio 1767, data di assunzione dei poteri da parte di Ferdinando: “La Reggenza è finita ma è stata seguita da un Consiglio di Stato. I membri della prima faranno parte del secondo ed il nome di Consigliere sostituirà quello di Reggente. Hanno diritto di parlare ma non di votare, eccetto che nel Consiglio di Giustizia cui il Re non assiste volentieri”. L’unico a mantenere piena autorità e influenza sul sovrano restava il Tanucci (sta in H. Acton, op. cit., pag. 131).

[23] Nel corso di una festa desiderata da Re Ferdinando, si legge in una corrispondenza dell’ambasciatore britannico Sir William Hamilton, si vide “il principe di San Nicandro, ultimo precettore di sua Maestà, con la testa china, e quegli stessi cortigiani che fino a poco tempo fa incoraggiarono il loro Signore nel suo contegno da ragazzaccio, si vergognano... perché temono che la sua familiarità possa voler dire che anch’essi hanno avuto la loro parte di colpa nella mancanza di educazione di sua Maestà, il che è anche troppo vero” (sta in H. Acton, op. cit., pag. 148).

[24] M. Vinciguerra, op, cit., pag. 579, e M. Schipa, op. cit., pag. 427, che trovano riscontro nel Polizzario delle spese famigliari conservato dal discendente L. Cattaneo della Volta, op. cit., pag. 282.

[25] Il parlar napoletano “nato ad essere quello della maggior corte d’Italia, destinato ad essere l’organo de’ pensieri più vivaci ingegni”, affermava il sommo linguista Ferdinando Galiani, Del dialetto napoletano, Bulzoni editore, Roma 1970, pag. 8, anche se tentennante verso le tesi di un accademico seicentesco che sosteneva, nominandosi Partenio Tosco, L’eccellenza della lingua napoletana con la maggioranza alla toscana, reprint Fausto Fiorentino editore, Napoli 1984.

[26] In particolare appare esaltante l’altare maggiore con marmi intarsiati che adorna la chiesa isolana notissima per il suo pavimento in ceramica che rappresenta il Paradiso terrestre.

[27] Queste lettere si trovano nell’Archivio privato San Nicandro, anno 1768.

[28] 28 Manoscritto pergamenaceo dello scorso secolo, anni Cinquanta, intitolato “I Cattaneo della Volta” conservato dai discendenti (copia trasmessa dal conte Raffaele Collenea Iserrnia all’autore di questa nota).

 

 

[29] Va ricordato che in Liguria i cittadini patrizi e benestanti non puntavano al possesso di feudi ma fondavano la propria superiorità esclusivamente sulle capacità mercantili armando velieri che solcavano il Mediterraneo con le loro merci e con la scorta di soldati per respingere gli assalti dei pirati turchi e saraceni.

[30] Nicola della Monica, Le grandi famiglie di Napoli, Newton & Compton editori, Roma 1998, pag. 143.

[31] In proposito: Carla Russo, Domenico Cattaneo principe di San Nicandro, sta in “Dizionario biografico degli italiani”, volume XXII, Istituto dell’Enciclopedia Treccani, Roma 1979.

[32] Aio è termine desueto nella lingua italiana. Proviene dall’etimo gotico hagia, in spagnolo ayo, che indica l’istitutore addetto alla formazione dei fanciulli e dei giovani nelle famiglie di ceto elevato per evitare l’affido dei propri figli a scuole pubbliche o religiose.

[33] Carlo di Borbone (1716-1788, figlio di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese duchessa di Parma) regnò sul trono meridionale dal 1734 al 1759; alla morte del padre assunse la corona di Madrid affidando il Regno di Napoli ad un Consiglio di Reggenza durante la minore età del figlio Ferdinando il Regno di Napoli. Sua moglie Maria Amalia di Sassonia nacque a Dresda nel 1724, arrivò a Napoli per il matrimonio con il Borbone nel 1738 e scomparve non ancora all’età di trentasei anni nel 1760 a Madrid.

[34] Su questo aspetto occorrerà scendere più avanti nei particolari per evidenziare lo stato d’animo negativo nei confronti del Cattaneo che circolava in certi ambienti di Palazzo. Luigi Cattaneo di S. Nicandro, Brevi cenni in difesa di un napoletano di due secoli fa, sta in “Archivio storico per le province napoletane”, Società napoletana di storia patria, Napoli 1964.

[35] Stupenda residenza estiva circondata da un vasto giardino all’italiana, sopravvive tuttora nella sua monumentale unicità a Barra in una frazione chiamata Pietrabianca ove Carlo V soggiornò profittando dell’ospitalità del gentiluomo Bernardino Martirano, segretario del Regno, quando si recò a visitare Napoli nel 1535 dopo soste in Sicilia e Calabria: Giacomo de Antonellis, Pietro di Toledo. Il Gran Viceré, Club di Autori indipendenti, Milano 2008, pag. 27. Il disegno di questa “!villa di delizia” viene attribuito a Luigi Vanvitelli ma la costruzione fu eseguita dai suoi figli Pietro e Carlo con la collaborazione di Francesco Collecini nel 1762; nel 1886 intervenne l’architetto Nicola Breglia che ampliò il complesso sistemando in modo diverso il giardino e aggiungendo un emiciclo di ingresso; la proprietà, per volontà della principessa Giulia Cattaneo Pignatelli, dama di corte presso Casa Savoia, fu trasmessa negli anni Venti del secolo scorso a Diego de Gregorio di Sant’Elia in quanto, essendo rimasta vedova e senza figli, ritenne di affidare in mani sicure questo patrimonio: il patto di adozione prevedeva soltanto la clausola di aggiungere al proprio cognome quello dei Cattaneo, come infatti è avvenuto.

[36] Purtroppo, a causa di un bombardamento aereo con seguito di incendio che colpì la bella chiesa nel 1944, il magnifico busto marmoreo, opera dello scultore Giuseppe Sammartino (1720-1793), e l’annessa iscrizione sepolcrale che adornavano l’antisacrestia sono andati distrutti.

[37] Bernardo Tanucci (Stia, presso Arezzo, 1698 - Napoli, 1783, quindi quasi coetaneo del Cattaneo) ha lasciato chiare tracce della sua posizione laicista e anticurialista, l’esatto contrario dello spirito che animava il principe di San Nicandro. Di origine toscana il Tanucci era giunto a Napoli dietro suggerimento del granduca Gian Gastone de’ Medici a Carlo di Borbone. Assumendo la carica di primo Ministro, in effetti si rivelò uomo di polso e politico vigoroso.

[38] L’opera di denigrazione iniziò con un rivoluzionario francese, tale Jean Blanc de Voulx che nel suo Coup d’oeil politique sur l’Europe à la fin du XVIII siecle, Parigi 1800, aveva attribuito al principe napoletano, per sentito dire, una éducation si negligée senza aggiungere altri particolari. Giudizio sostenuto poi anche dal siciliano Michele Palmieri di Micciché, detto il “barone pazzo”, nei suoi Pensée set souvenirs historiques et contemporaines scritti a Ginevra nel 1830 (“il  duca era un grande imbecille ed una parvenza di aio”: giudizio riproposto nel volume a cura di Umberto Caldora, I Borboni di Napoli e i loro tempi, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1964). Questa tesi venne poi ripresa da Pietro Colletta che nutriva un’acredine specifica per parlare male del Borbone. Non vale la pena citare le chiacchiere dei vari Giuseppe Gorani, Alessandro Dumas padre e Giovanni La Cecilia (alla maniera di un odierno Travaglio) perché frutto esclusivo di giornalismo scandalistico e di informazione privo di seria ricerca.

[39] Il Consiglio di Reggenza era formato da dieci gentiluomini di Corte, selezionati dallo stesso re Carlo: Domenico Cattaneo principe di San Nicandro  e gran ciambellano, Michele Reggio capitano generale delle truppe marittime, marchese Fogliani d’Aragona viceré di Sicilia, Jacopo Milano marchese di San Giorgio e principe di Ardore, Giuseppe Pappacoda principe di Centola, Pietro Bologna principe di Camporeale, Domenico di Sangro duca di Martina e capitano generale dell’esercito, Stefano Reggio principe di Jaci e Campofiorito, Lelio Carafa marchese di Arienzo e comandante delle guardie del corpo, marchese Bernardo Tanucci primo ministro e segretario di Stato (da Notizie civili de’ tempi per uso dell’anno MDCCLX, Stamperia del Regno, Napoli 1760).

[40] In teoria il potere era ripartito ugualmente tra tutti i consiglieri. In pratica due uomini dominavano la Reggenza, il Tanucci che aveva l’appoggio della corrente prettamente governativa e il Cattaneo che godeva dei favori della corte. Almeno tre membri (San Nicandro, Fogliani e San Giorgio) facevano muro perché pensavano cose assai diverse da quelle del primo Ministro e segretario di Stato, specialmente in materia ecclesiastica.

[41] Con il termine franceseenclave (sotto chiave) si indica un territorio situato all’interno di uno Stato, unito ad esso sotto il profilo linguistico, ma politicamente separato in quanto soggetto ad altra entità statale: tipico esempio,  Campione d’Italia che si trova in una regione come il Ticino sotto la piena sovranità svizzera.

[42] Si trattava di un cavallo bianco - detto appunto Chinea -con gualdrappa sulla quale veniva posta una borsa con monete d’oro. Il Re di Napoli usava presentarla al Papa ogni due anni in segno di vassallaggio, in base ad una tradizione nata con l’infeudamento degli Angiò nel Regno meridionale. In proposito Giacomo de Antonellis, Storia di una borsa d’oro e di un cavallo bianco, sta sulla rivista “L’Esopo”, Milano giugno 1987.

[43] A tale proposito ampia è la documentazione curata da Carlo Knight, Carteggio San Nicandro - Carlo III. Il periodo della Reggenza (1760-1767), tre volumi, Società napoletana di storia patria, Napoli 2009.

[44] Benedetto Croce, Storia del Regno di Napoli, Laterza editore, Bari 1958, pag. 197. Questo passo sembra in chiaro contrasto con la descrizione di Raffaele Altavilla, Breve storia di Napoli dalla fondazione ai nostri giorni, Stabilimento tipografico dell’Unione, Napoli 1882, ove a pag. 239 si offre una lettura diversa del rapporto aio-adolescente, attribuendo l’insufficienza dei risultati al carattere vago del giovane e non all’incapacità del maestro: “Ferdinando fanciullo consumava molte ore del giorno negli esercizi e diletti, e svagava la mente dagli studi. Gli uomini di più fama e dottrina erano suoi maestri ma ora il tempo, ora mancando il valore, nessuno o raro l’insegnamento. Giovinetto non soffriva conversare coi sapienti, e fatto adulto ne vergognava; godeva mostrare o narrare come sapesse abbattere cigniali o cervi, colpire a volo uccelli, frenar destrieri, esser saggissimo alla pesca, primo alla corsa. L’attitudine a quegli esercizi, la forza, il vivere dissipato, i gusti plebei divennero ambizione dei soggetti, e tanto più dei nobili, compagni al re e da lui ammirati nella corte... Impaziente delle funzioni della mente, fastidiva i consigli di Stato, raro li chiamava, presto li distoglieva”.

[45] “In verità il Re volgare e bonaccione [venne] educato dal vecchio e ignorante principe di San Nicandro...”: così Mario Vinciguerra, La reggenza borbonica nella minorità di Ferdinando IV, in “Archivio storico per le province napoletane”, Società napoletana di storia patria, Napoli 1915, pag. 140. Vinciguerra si richiama anche al giudizio di storici minori quali Michele Rossi (Nuova luce risultante dai fatti avvenuti in Napoli prima del 1799, Tipografia Barbèra, Firenze 1890, pag. 265: “l’uomo più ignorante che allora fosse in terra”) e Cosimo Losurdo (Tanucci e la Reggenza al tempo di Ferdinando IV, Tipografia Trizio, Bari 1911, pag. 16: “inetto, ipocrita, il più superstizioso in corte”).

[46] Uomo politico e storico (Napoli 1775 - Firenze 1831) egli aveva assunto rilevanti uffici a servizio della dinastia  Borbone: comandante generale in Sicilia e ministro della guerra durante la rivoluzione del 1821; per contrastanti visioni con la Corte fu costretto ad allontanarsi dal Regno riparando nella città dell’Arno ove scrisse una Storia di amplissima risonanza e più volte stampata.

[47] Pietro Colletta, Storia del reame di Napoli. I brani qui citati sono tratti da pag. 87 dell’edizione 1962.

[48] Harold Acton, I Borboni di Napoli, Martello editore, Milano 1968, pag. 128.

[49] Prefazione, pag. III, di Giuseppe GALASSO all’opera di C. Knight, op. cit., sul Carteggio tra il principe di San Nicandro e il re di Spagna.

[50] Il nunzio pontificio, cardinale Domenico Orsini d’Aragona, riferiva alla Santa Sede dopo il 12 gennaio 1767, data di assunzione dei poteri da parte di Ferdinando: “La Reggenza è finita ma è stata seguita da un Consiglio di Stato. I membri della prima faranno parte del secondo ed il nome di Consigliere sostituirà quello di Reggente. Hanno diritto di parlare ma non di votare, eccetto che nel Consiglio di Giustizia cui il Re non assiste volentieri”. L’unico a mantenere piena autorità e influenza sul sovrano restava il Tanucci (sta in H. Acton, op. cit., pag. 131).

[51] Nel corso di una festa desiderata da Re Ferdinando, si legge in una corrispondenza dell’ambasciatore britannico Sir William Hamilton, si vide “il principe di San Nicandro, ultimo precettore di sua Maestà, con la testa china, e quegli stessi cortigiani che fino a poco tempo fa incoraggiarono il loro Signore nel suo contegno da ragazzaccio, si vergognano... perché temono che la sua familiarità possa voler dire che anch’essi hanno avuto la loro parte di colpa nella mancanza di educazione di sua Maestà, il che è anche troppo vero” (sta in H. Acton, op. cit., pag. 148).

[52] M. Vinciguerra, op, cit., pag. 579, e M. Schipa, op. cit., pag. 427, che trovano riscontro nel Polizzario delle spese famigliari conservato dal discendente L. Cattaneo della Volta, op. cit., pag. 282.

[53] Il parlar napoletano “nato ad essere quello della maggior corte d’Italia, destinato ad essere l’organo de’ pensieri più vivaci ingegni”, affermava il sommo linguista Ferdinando Galiani, Del dialetto napoletano, Bulzoni editore, Roma 1970, pag. 8, anche se tentennante verso le tesi di un accademico seicentesco che sosteneva, nominandosi Partenio Tosco, L’eccellenza della lingua napoletana con la maggioranza alla toscana, reprint Fausto Fiorentino editore, Napoli 1984.

[54] In particolare appare esaltante l’altare maggiore con marmi intarsiati che adorna la chiesa isolana notissima per il suo pavimento in ceramica che rappresenta il Paradiso terrestre.

[55] Queste lettere si trovano nell’Archivio privato San Nicandro, anno 1768.

[56] Manoscritto pergamenaceo dello scorso secolo, anni Cinquanta, intitolato “I Cattaneo della Volta” conservato dai discendenti (copia trasmessa dal conte Raffaele Collenea Iserrnia all’autore di questa nota).

 

 

 

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