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La biblioteca di Alessandra
Scritto da Gianandrea de AntonellisEra un pomeriggio domenicale e il tè aveva abbondantemente superato i cinque minuti di infusione. La dottoressa Angeli poggiò sul tavolino il romanzo di Ray Bradbury e si versò una tazza di Irish Afternoon, che macchiò con abbondante latte e addolcì con due cucchiaini colmi di zucchero. Dopo aver bevuto alcuni sorsi si alzò dalla poltrona per dirigersi verso la finestra. Il tempo era oscuro – ella adorava il grigiore del cielo e delle nuvole – e le foglie cadute dai rami sul selciato venivano spazzate dal vento, unico movimento nella via deserta.
Contemplò il volume sul tavolino: quante volte lo aveva letto! Conosceva quasi a memoria alcuni passaggi, tanto che se le capitava di scorrerlo durante il crepuscolo era capace di continuare anche quando il buio era calato – un po’ come Cirano con la lettera di Rossana – per non doversene staccare mentre andava ad accendere la luce.
Aveva agito bene? L’assillava il dubbio di aver infranto la correttezza professionale del suo ordine: per questo il romanzo apocalittico di Bradbury la sosteneva, rassicurandola. No, aveva agito per il bene dell’umanità, per la salvezza delle generazioni future ed aveva utilizzato nel migliore dei modi le conoscenze di cui era a disposizione. Il destino la aveva voluta medico ed ella come medico si era adoperata, riuscendo nella prima parte dell’operazione. Per il resto, poi, avrebbe dovuto aspettare…
Tornò al tavolino, bevve un’altra tazza di tè, quindi una terza. Sentì il forte sapore del tannino in bocca, il calore scenderle nelle viscere e una energica spinta salire verso il cervello. Tutto le sembrò più chiaro. A parte gli effetti degenerativi (ricordava di aver letto qualcosa in un racconto di Sheridan Le Fanu, ma ella beveva quasi esclusivamente tè nero, mai verde) la bevanda esotica – ma sorbita alla maniera occidentale – le permetteva di ragionare con maggiore facilità facendole vedere connessioni che altrimenti rimanevano incomprensibili (come accadeva alla maggior parte di coloro che la circondavano).
Ella – non certo quel pomeriggio, ma molti mesi prima – aveva compreso perfettamente che l’autore inglese non era un semplice scrittore di fantascienza, ma un vero e proprio iniziato. Come un altro scrittore-iniziato, Aldous Huxley («che non si contentava solo del tè» pensò sorridendo) aveva descritto nel suo capolavoro (Brave new world) i terribili effetti del “meraviglioso mondo nuovo” verso il quale erano diretti – anche quella una società senza libri, senza veri libri – così Fahreneit 451 non voleva essere una mera esercitazione letteraria, ma un vero e proprio avvertimento alle nazioni. Un messaggio lanciato disperatamente. O meglio: con la speranza che qualcuno lo raccogliesse. Il nuovo governo mondiale che si andava profilando avrebbe senza dubbio messo al bando i libri! Anche un intellettuale affermato come Ray Bradbury non poteva dichiararlo apertamente senza che i grandi potentati massonici lo ridicolizzassero, facendolo passare per visionario. Dunque? Dunque bisognava far filtrare il messaggio camuffandolo da opera letteraria. Così aveva fatto Mozart per svelare l’iniziazione massonica con il Flauto magico (e male gli era andata, se era vero che erano stati proprio suoi confratelli ad avvelenarlo). Così aveva fatto Huxley, così era stato costretto a fare Bradbury.
La dottoressa Angeli non sapeva quante persone, oltre a lei, avessero compreso il messaggio. Ma non aveva importanza: ciò che premeva era salvare i libri, ad ogni costo.
Guardò la sua biblioteca, un tempo ricca di eleganti, se non preziose, legature: tutto era iniziato con una piccola eredità giuntale da uno zio, che le aveva lasciato alcuni gustosi trattati sull’arte militare del secolo XVIII (tutti spazzati via – dal punto di vista contenutistico – da un mezzo bibliofilo come Napoleone Buonaparte). Ella si era quindi appassionata al libro come oggetto bello in sé ed aveva rivolto le sue attenzioni in particolare alle rilegature, raccogliendo, in particolar modo, volumetti ottocenteschi sulla lingua toscana e noiose opere morali sei e settecentesche che, anni addietro, riusciva ancora a trovare a poche lire sulle bancarelle, prima che divenissero anch’esse oggetto di speculazione. Del resto, poco le importava del contenuto, perché si circondava di quei libri, dichiaratamente, soprattutto per la loro forma esteriore.
Ora gli scaffali erano semivuoti: tutti i volumi più interessanti erano stati riposti, avvolti in morbidi panni affinché non si rovinassero, in un paio di resistenti bauli, a loro volta sepolti in cantina. La forma era salva, ma aver posto al sicuro soltanto la propria, piccola biblioteca di “semplici” legature non aveva dato pace all’animo della dottoressa. L’amore per la forma, infatti, non aveva mai fatto dimenticare l’importanza dei contenuti a lei che adorava i classici della letteratura occidentale, in particolare il romanzo ottocentesco. Riteneva – e non certo a torto – che i libri contenessero l’intero scibile umano che in tremila anni di storia – cioè di scrittura – era stato tramandato fino a loro. Quod non est in libris non est in mundo, si ripeteva spesso : una volta scomparsi i libri, tutta la conoscenza occidentale sarebbe sprofondata nell’oblio, come se non fosse mai esistita. E lei, la dottoressa Alessandra Angeli, chirurga, avrebbe fatto di tutto per salvare la cultura umana.
* * *
Mesi prima – appena avuta l’intuizione dell’orribile disegno del futuro governo mondiale – aveva parlato a lungo con un amico, esperto di informatica, senza far trapelare alcunché dei motivi della sua inchiesta.
«Il futuro del libro sta qui» le aveva detto questi una volta agitandole sotto il naso un dischetto. «Otto centimetri per otto, o, per essere esatti, tre pollici e un quarto per tre pollici e un quarto: in poco più di dieci pollici quadrati e mezzo (o sessantotto centimetri quadrati, fai tu) possono stare comodamente due libroni! La tua biblioteca sarà miniaturizzata, grazie a questo!».
Alessandra aveva guardato con sospetto quel dischetto (in realtà era quadrato: allora, perché chiamarlo disco?). «Come faccio a leggerlo?» era stata la domanda spontanea.
«Grazie a questo, naturalmente» e le aveva indicato, un po’ spazientito, il computer. «Questo è solo il supporto, il disco flessibile, che va inserito qui e letto qui» ed aveva indicato lo schermo.
Alessandra avrebbe voluto chiedergli perché lo avesse definito flessibile, visto che era rigido, ma se ne era astenuta, sia per non guastare i rapporti con l’amico, sia per non fare la figura da ignorante (la prima risposta dell’altro le aveva fatto comprendere come chi ama l’elettronica pretenda che tutti siano già approdati alle sue stesse conoscenze), sia perché disgustata da ciò che era apparso sul video.
«Sembra una macchina da scrivere!» aveva digrignato tra i denti, riferendosi allo squallore del testo evidenziato sullo schermo. Ma l’altro non aveva colto il tono di disprezzo e, pensando che si riferisse alle molteplici funzionalità della macchina e non alle sue carenze estetiche, affermò trionfante: «Di più, molto di più: è un word-processor, un elaboratore di scrittura. Puoi scrivere cancellare tagliare incollare stampare tutto o in parte… Finora è stato usato soprattutto per scrivere in funzione della classica pubblicazione cartacea, ma presto la stampa stessa diverrà obsoleta e verrà abolita. Cioè: rimarrà solo la stampante personale. Non si andrà più in libreria; già ora è possibile: si va su internet, si scarica il libro che interessa e voila…ecco fatto! Cercavi i racconti di Arrigo Boito non più editi da una vita? La casa editrice li mette sul proprio sito e tu li acquisti ad un prezzo buono per te ed ottimo per lei, perché così evita rimanenze. Non devi neppure fare la fatica di andare fino in libreria: ti salta il ghiribizzo di un qualsiasi volume a qualsiasi ora del giorno e della notte, in un qualsiasi punto dell’universo? Nessun problema: basta accendere un computer. Guarda: te lo mostro subito». E in capo a pochi minuti sfornò una decina di fogli formato fotocopia sui quali le tristi avventure di Simeon Lévy, detto l’“Ebreo senza sabato”, venivano narrate.
Alessandra tornò a casa con il plico, ricordando il libretto che racchiudeva il racconto Il pugno chiuso, così elegante, con quella carta vergata che ricordava i tempi in cui la carta veniva tirata a mano, con estrema cura. Era stata più l’emozione dello scritto o della pregiata – sia pure contemporanea – edizione in sedicesimo piccolo? Non sapeva darsi una risposta, ma ricordava perfettamente le sensazioni che aveva avuto nel leggere la novella di Boito. Adesso, invece, di fronte a quelle carte anonime, lo stesso racconto non le trasmetteva che un terzo delle emozioni di una volta e non certo perché ne conosceva già la trama…
Comunque il fatto che due grossi tomi potessero essere contenuti in un dischetto (o, più precisamente in un quadratino) le sembrò un ottimo espediente in vista del tentativo di salvare la letteratura mondiale e continuò ad aggiornarsi. Scoprì che era stato inventato un altro tipo di disco (questo le sembrò più serio, perché era veramente di forma rotonda) che poteva contenere addirittura cinquecento degli altri dischetti (o meglio quadretti).
L’amico apprezzava il sincero interesse di Alessandra:
– Vedi, se sei attratto soltanto dal contenuto di un libro e non ti interessa la sua formattazione… la sua impaginazione – si corresse vedendo corrugarsi la fronte dell’interlocutrice – puoi usare un programma più semplice, un formato più leggero… insomma, un libro può pesare… può occupare tanto o poco spazio a seconda delle informazioni aggiuntive al testo. Se le limiti al massimo puoi inserire in un dischetto fino a cinque romanzi e, di conseguenza, su un disco compatto tra i duemila e i duemilacinquecento romanzi!
Alessandra stupita, non trovò di meglio che dire:
– E su due dischi… cinquemila romanzi…
– E su tre, oltre settemila! E su quattro, diecimila! Dovevi fare il matematico, Alessandra, non il medico!
L’ironia di Giuseppe si perse nel nulla, perché l’altra stava fantasticando.
– Hai detto che molti romanzi, poesie e racconti sono già disponibile in formato… ridotto. Voglio dire, per ordinatore.
– Per computer, sì. – Giuseppe si ostinava ad usare vocaboli stranieri – Ti ho detto che il futuro dell’editoria sta nel virtuale! Scusa, cerca di ragionare: comunque adesso si usa il computer per preparare qualsiasi libro. Quindi un lavoro che si farebbe comunque. Però in questo modo si ottengono: nessuna spesa di stampa (che rimane a carico dell’acquirente), nessuna spesa di distribuzione (si trova tutto “in rete”), nessuna spesa di magazzino, nessuna rimanenza. Mi spieghi perché mai dovrebbero perdere tempo – e soprattutto denaro – a stampare come si faceva una volta?
Alessandra rivalutò quelle pagine anonime e la domenica seguente si preparò alla usuale cerimonia pomeridiana del tè con una decina di pagine dattiloscritte. L’alfiere nero, in dodici fogli, le sembrava meno avvincente, ma in fondo era meglio che niente. Fu alla terza tazza di tè (molto, molto forte) che la mente le si aprì e immediatamente comprese quale orrendo disegno si celasse dietro l’ipotesi prospettata dall’amico. Non potevano esistere dubbi: riunire tutto lo scibile umano in una biblioteca virtuale; poi eliminare la carta (bastava alzare il prezzo di questa, o quello dell’inchiostro oppure delle stampanti) e la gente avrebbe finito per leggere solo e soltanto direttamente sul video; quindi bastava impedire l’uso degli ordinatori, oppure chiudere quelle biblioteche virtuali che sembravano rappresentare la panacea. In una decina di anni con questi nuovi apparecchi – e con la penuria di case e di spazi – la classica biblioteca sarebbe diventata un lusso inutile. Anzi, addirittura odioso: un po’ come un appartamento di quattro stanze nella Russia della Rivoluzione…
Gli scaffali librari sarebbero divenuti superflui e presto rimpiazzati: tanto, c’era il computer! Uno scherzo, una volta divenuti dipendenti da quello strumento, vietare la lettura: bastava inaridire la fonte, non era neppure necessario organizzare roghi o sequestri!
Il “loro” disegno era chiarissimo. Alessandra guardò il disco compatto: «Tu puoi contenere cinquecento volte le tre versioni de I promessi sposi, ma come faccio a leggerti, se non ho lo strumento acconcio? Se sono in un luogo senza corrente? Se distruggono tutti gli ordinatori? Se ne vietano l’utilizzo? Posso nascondere un libro o più di uno in una tasca, sotto la giacca, in una valigia… Posso scappare in campagna per leggerlo, ma sono del tutto impossibilitato a trasportarmi sotto la camicia un intero ordinatore. E poi, come farei a farlo funzionare? Attaccandolo alla dinamo di una bicicletta?»
L’idea di comprimere la crema della letteratura occidentale in una decina di dischetti era da scartare: ottima nel caso in cui “loro” avessero permesso la lettura (ma allora, perché rovinarsi la vista davanti ad uno schermo? Tanto meglio leggere direttamente in poltrona un bel volume rigirandoselo tra le mani, apprezzando la consistenza delle pagine, sorseggiando di tanto in tanto una buona tazza di tè…); del tutto inutile, però, nel momento in cui avessero scatenato la guerra culturale. Anzi, se proprio “loro” agevolavano il diffondersi di quelle noiose ed antiestetiche macchine, dovevano pur avere un fine occulto, un motivo recondito: probabilmente proprio l’agevolare la distruzione del libro e dei suoi contenuti!
Messo fuori causa il computer, non rimaneva che una soluzione: il libro poteva – e doveva – salvarsi soltanto da sé. Alessandra pensò al finale di Fahreneit 451, con gli uomini-libro: se un cospicuo gruppo di persone si fosse impegnato ad imparare a memoria un romanzo, un dramma, una raccolta di poesie o di racconti, avrebbe potuto mantenere inalterato dentro di sé il contenuto dell’opera per tramandarlo… Ma come trovare i volontari? Ella, nella sua qualità di chirurgo, era a contatto con numerose persone ed iniziò a fare una inchiesta di massima nell’ospedale in cui lavorava, pur rimanendo molto sul vago, per questioni di sicurezza.
Fu lo sguardo di un infermiere, a metà strada tra il dubbioso e il corrucciato, a metterla sul chi vive: era troppo pericoloso cercare di creare una comunità come quella descritta da Bradbury. Parlare troppo della memorizzazione dei libri, in un’epoca in cui la memoria veniva considerata poco o nulla anche a scuola, avrebbe potuto insospettire qualcuno e “loro” avrebbero potuto bloccare il suo progetto stroncandolo sul nascere. L’immagine del volto dubbioso dell’infermiere continuava a perseguitarla. Venne ripresa dalle fobie di persecuzione, iniziò a vedere spie del nuovo governo mondiale dappertutto. Era necessario stringere i tempi, ma doveva agire da sola, almeno per il momento.
Finalmente fu colta da un’illuminazione: la più semplice, in un certo senso la più naturale. La giusta via di mezzo tra la tradizione e la modernità. Le era tornata alla mente una casa editrice che, anni ed anni prima, aveva inondato le librerie (e, a dire il vero, anche le edicole delle stazioni ferroviarie e metropolitane) di libri non molto curati, ma estremamente economici. “Centopagine Millelire” recitava la reclame. Ad Alessandra in questo caso interessava non tanto l’economicità dell’investimento, quanto l’esiguità dello spazio occupato. Un romanzo stampato a caratteri minuscoli e con una interlinea adeguata era comunque leggibile, senza bisogno di particolari supporti. Si salvava da sé, insomma. Ma era ridicolo pensare di farne casse e casse (quelle sue, nascoste in cantina, erano state destinate alle edizioni di pregio) e di nasconderle da qualche parte: bisognava formare, come aveva suggerito Bradbury, un gruppo di persone capace di mantenere inalterato dentro di sé il contenuto del romanzo per tramandarlo.
Alessandra aveva dunque agito: chirurgo gastroenterologo, capace di effettuare anche quattro interventi nell’arco della giornata (sei se lavorava anche la sera) trovò il modo di inserire, uno per paziente, uno dei bei libretti – accuratamente selezionati – sotto il diaframma, tra il peritoneo e l’apparato respiratorio. La copertina plastificata avrebbe evitato la decomposizione e il rigetto era ridotto al minimo: qualche caso di saturnismo (dovuto al piombo tipografico con cui i fogli erano venuti a contatto), qualche paziente che inizialmente aveva avvertito leggere difficoltà respiratore o digestive. Ma tutto sommato un trionfo, senza alcun caso di decesso.
Era riuscita a “mettere in piedi” – come si ripeteva spesso – una singolare biblioteca. La definiva talvolta la sua “biblioteca ambulante” o, più pomposamente, la “biblioteca di Alessandra” e, sperando che non facesse la fine di quella egiziana, e seguiva con attenzione il decorso post-operatorio dei suoi pazienti.
* * *
Quel pomeriggio autunnale il tè di Alessandra si era ormai raffreddato, ma non così la sua angoscia. Il chirurgo tolse lo sguardo dagli scaffali vuoti della sua biblioteca e tornò a guardare la strada vuota, pensosa. Un problema inatteso si era presentato. Aveva sopito ogni dubbio relativo all’etica professionale e poteva essere fiera dei risultati fisici raggiunti, ma la angustiava il fatto che molti dei suoi “pazienti” avevano manifestato turbe psichiche ed erano ricorsi alle cure di Ferdinando Netta, un suo collega neurologo. Erano effetti collaterali dell’operazione o malesseri del tutto indipendenti dall’innesto effettuato?
Decise di togliersi ogni dubbio: avrebbe interrogato Ferdinando, stando molto ben attenta a che non trapelasse nulla delle precedenti operazioni.
L’indomani l’amico, che era anche psicologo e psichiatra, la fece accomodare nel suo studio a prima mattina, prima di iniziare le visite. Alessandra argomentò una scusa abbastanza credibile perché l’altro si convincesse a trarre dal suo archivio alcune cartelle che iniziò a leggerle senza sospettare alcunché:
– Sono casi, per così dire, “curiosi”. Ecco, in sintesi, le anamnesi: Immacolata Tamaro. Anni trenta. Nubile. Impiegata presso un grande magazzino. La madre lamenta le sue crisi depressive. Spesso torna a casa e lancia ingiurie al marito, reo di farle condurre una vita troppo piatta.
Fernando si fermò, guardando di sottecchi Alessandra, che commentò:
– Non mi sembra particolarmente strano…
Ferdinando replicò senza scomporsi:
– Anche tu, come del resto la paziente, dimentichi un particolare: la Tamaro non è sposata. Andiamo avanti: Antonio Torti. Anni trentacinque. Ad un mese dal matrimonio ha abbandonato la fidanzata ed è caduto in una crisi depressiva. Ha avuto un violento alterco con il padre, di cui ha poi pianto la morte. Continuiamo: Michele Piatto. Avvocato quarantenne. Da un mese non frequenta più il tribunale e si chiude nel proprio studio per preparare una misteriosa causa che lo riguarda “molto da vicino”, ma di cui non conosce i termini esatti. Cattolico praticante, uso ascoltare la messa ogni mattina, ora evita le chiese, in particolar modo il Duomo.
Ferdinando interruppe la lettura, chiudendo la cartella.
– Vedi, Alessandra, la cosa strana di questi casi è che ognuno dei pazienti è sicuro di stare benissimo. Ricordi L’invasione degli ultracorpi? Nel film di Don Siegel tutti i “malati” sono scoperti dai parenti, che notano qualcosa di strano in loro. Qui lo stesso. Nessuno è venuto da me spontaneamente, conscio di qualche male. Tranne quel Torti, che era depresso sì, ma in maniera direi… caricata, non so… come se facesse finta di star male. E la cosa più strana che non mi ha parlato mai di una ossessione veramente grave che lo ha colpito; guarda… è una contraddizione vivente: figurati che litiga con il padre perché crede che questi gli abbia ucciso… il padre!
– No, scusa, non capisco: il patrigno gli avrebbe ucciso il padre, oppure il padre “ufficiale” avrebbe ucciso l’amante della madre, di cui lui ritiene di essere figlio?
– No, no: è più semplice (se vogliamo dire così). Il padre avrebbe ucciso… se stesso, anche se continua a vivere, tanto da litigare con il figlio.
– Ma è assurdo!
– Assurdo. Esattamente quello che ho detto io. E invece di insistere in simili paranoie, con me si diverte a raccontare sciocchezze senza senso, discettando sulla forma delle nuvole, per dire – tanto che io ho l’impressione che faccia il pazzo, ma che non lo sia affatto – mentre della mania assurda del padre che avrebbe ucciso… se stesso, nemmeno una parola!
Alessandra inseguiva un pensiero lontano:
– Ti parla della forma delle nuvole, hai detto?
– Sì, perché, ti dice qualcosa?
Scosse la testa, ostentando indifferenza:
– Mah, non so, sto cercando di pensare…
Nel suo cervello si era intanto fatta strada una idea inquietante.
Il neurologo chiuse la cartella e, togliendosi gli occhiali da lettura, congedò l’amica:
– Beh, adesso ti debbo lasciare. Sta arrivando “Napoleone”!
– Chi? Un pazzo che crede di essere l’imperatore? Pensavo che fosse una follia passata di moda! E gira con la mano destra nel panciotto?
– E il mignolo nell’orecchio… No, questo lo chiamo “Napoleone” perché continua a farsi domande su Buonaparte, su cosa avrebbe fatto e su cosa no… Una vera gabbia di matti, ti dico!
La risata del neurologo non trovò eco in Alessandra, entro il cui cervello quell’idea inquietante diveniva sempre più concreta: nello studio, accompagnato dalla sorella, era entrato il malato. Alto, emaciato, con gli occhi spiritati, ebbe un sussulto quando vide la dottoressa; le lanciò uno sguardo da brivido sibilandole contro a denti stretti un insulto con una voce talmente trattenuta che dapprima ella non riuscì a comprendere.
Alessandra corse a casa con angoscia, continuando a sentire rimbombare nel cervello la parola soffiatale in faccia con rabbia dal folle, che ogni momento le sembrava divenire più chiara ed intelligibile: «Usuraia!». Giunta alla sua scrivania si mise a rovistare affannosamente tra le proprie carte. Era sicura di averla conservata da qualche parte… Mise a soqquadro vari dei numerosi cassetti prima di riuscire a trovarla, ma finalmente mise le mani sulla lista delle operazioni di “innesto”. La scorse con sguardo nervoso, quindi cadde angosciata sulla poltrona. Si era realizzato quello che aveva temuto ascoltando le anamnesi: i pazienti avevano metabolizzato il romanzo che avevano in corpo.
Tutto collimava: le ansie, le manie, le “allucinazioni”… Immacolata Tamaro: Madame Bovary; Antonio Torti: La tragedia di Amleto, Principe di Danimarca; Michele Piatto: Il processo.
La lista era lunga, ma il suo occhio si fermava continuamente su una riga: quella in cui era riportato l’intervento di Franco Cellini, “Napoleone”, come lo aveva definito il neurologo. «Lo sapevo!», si ripeté scuotendo più volte la testa, per poi abbandonarsi sulla poltrona e rimanere in stato di semi incoscienza per molto tempo, lo sguardo fisso nel vuoto.
– “Usuraia”… mi ha detto proprio “usuraia”…
Venne risvegliata dal campanello. Guardò dallo spioncino della porta e sospirò.
«È inutile nascondersi…» si disse mentre apriva.
– Entri pure, Franco, quando l’ho vista in ambulatorio ho capito che sarebbe venuto presto a trovarmi.
Chiuse gli occhi e le sembrò di non avvertire dolore quando la scure la colpì lateralmente, all’altezza dello stomaco. La macchia di sangue che si sparse sul pavimento coprì quasi tutta la lista, ma lasciò, beffardamente, intatto il titolo del romanzo di Dostoevski associato al nome di Franco Cellini.
Dalla ferita di Alessandra fuoriuscì – ancora leggibile perché accuratamente avvolto da un velo di cellophane – un volume bianco, edito dall’Aldus Club, con alcuni racconti avveniristici, tra cui uno sulla conservazione della cultura scritta nel futuro.