Il bacio di Tosca

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Il bacio di Tosca

Dittatori e Cibo: Ecco Cosa Mangiavano Hitler, Stalin e gli Altri -  Smartweek

A Don Marco Mascia, ispiratore

– Posso domandarle, Altezza, che cosa ha provato durante la famosa visita di Hitler a Napoli?

L’ex regina non rispose immediatamente, ma aspirò a lungo da una sigaretta e quindi emise una densa nuvola di fumo, nella quale fissò lo sguardo senza mai cercare quello dell’interlocutore.

– Sono stata costretta a pranzare con lui, addirittura a sedermi alla sua destra (che in teoria sarebbe dovuto essere un grande – anzi un enorme – onore) e per tutto il pranzo ho tenuto lo sguardo fisso sulle mie stoviglie per evitare di guardarlo, di incrociare i suoi occhi. Le poche volte in cui non ne ho potuto fare a meno, lo ho trovato ripugnante. Per sentirmi occupata, continuavo ad accarezzare il coltello alla destra del piatto: se fosse stato più acuminato – mi dicevo – avrei potuto cercare di ucciderlo.

Guardava le volute grigiastre che si andavano dissolvendo, quasi a voler scrutare l’evolversi di un possibile passato alternativo, come si cerca di discernere l’orizzonte – già ben noto – in una giornata brumosa. Chissà quante volte aveva ripensato a quella possibilità!

– Se così fosse stato, avrei salvato il Paese dallo sciagurato ingresso in guerra. Avrei salvato milioni di vite in Europa. E la monarchia in Italia.

Anche Marco – l’uomo che aveva posto la domanda – guardò la nuvola che si disfaceva, lentamente ma con ineluttabilità, immaginando le varie ipotesi parallele.

Cosa sarebbe successo dopo la morte improvvisa di Hitler? La “Regina di Maggio”, viste le sue parole, pensava certo a una soluzione pacifica, all’avvento della democrazia (come se la Repubblica di Weimar, che aveva affondato la Germania economicamente e moralmente, potesse avere ancora qualche nostalgico, a parte gli Ebrei…), a un Dietrich Bonhoeffer presidente, come sarebbe avvenuto se avesse avuto successo l’attentato del 20 luglio 1944… Ma nel 1938 per la stragrande maggioranza dei Tedeschi il Führer era poco meno di una divinità. Era colui che aveva risollevato una nazione prostrata dalle vessazioni del trattato di Versailles, dall’in­flazione che aveva distrutto l’economia, dalla corruzione che aveva fiaccato il popolo tedesco. Veniva addirittura rappresentato – in alcune immaginette che rasentavano la blasfemia – come un inviato del cielo, illuminato dallo Spirito Santo. Nonostante non lo ammettessero volentieri, perché in loro rimaneva una certa spocchia verso l’homo novus, aveva ridato orgoglio agli aristocratici dell’esercito; aveva militarizzato la burocrazia e creato un (discutibile) ordine cavalleresco per la borghesia, facendola sentire più nobile delle più antiche famiglie germaniche. Aveva creato una macchina propagandistica che con sapienti manifestazioni – mitopoiesi del rito! – aveva suscitato nel cuore dei Tedeschi il germe di una nuova religione della razza di cui tutti, appartenendovi, si sentivano adepti e sacerdoti, custodi e missionari… Lungi dalle aspettative di Maria José, un attentato avrebbe scatenato un’ondata di sdegno e il desiderio di vendicarsi ad ogni costo. Hitler non era Engelbert Dollfuss, il cancelliere austriaco la cui morte aveva scatenato solo la protesta e l’offerta di soccorso di Mussolini (peraltro rifiutata dagli stessi Austriaci, che mal gradivano l’aiuto – e la conseguente occupazione militare – degli Italiani).

Escluso che al Führer sarebbe successo un suo oppositore pacifista e “democratico”, è palese che il popolo intero avrebbe preteso giustizia, feroce ed immediata.

È secondario pensare a chi avrebbe preso il posto del Capo: il delfino Rudolf Hess? Il Maresciallo del Reich Göring o qualche altro alto militare, magari un generale esponente dell’aristocrazia prussiana? Oppure il Reichsführer-SS Heinrich Himmler, rappresentante della borghesia “nobilitata” dall’Ordine Nero, di cui era capo supremo?

Forse la soluzione di compromesso sarebbe stata la più probabile e si sarebbe formato un triumvirato (chi avrebbe osato sostituirsi al Führer? In tre, inoltre, le colpe e le mancanze si distribuiscono più facilmente…) con i sunnominati Hess, Göring e Himmler. Il partito, l’aviazione (e quindi l’esercito), l’ordine nero. Intellettuali (o fanatici), aristocratici e borghesi (fanatizzati) uniti per affrontare l’ennesimo vile attentato alla nazione tedesca.

Maria José non parlò più, né con l’uomo che le aveva suscitato quei ricordi, né con altri. Si limitò a gettargli un’occhiata fugace, come per farsi un’idea di chi aveva avuto l’ardire di rivolgersi a lei e, allo stesso tempo, congedarlo. E si rituffò nelle nuvole della sua nuova, ennesima sigaretta, dei ricordi e delle supposizioni.

*          *          *

Il colloquio – se tale termine si può utilizzare – era stato molto breve, ma aveva lasciato una profonda impressione in Marco, che per il resto della serata non poté fare a meno di pensare a quelle (poche) parole: «Se così fosse stato, avrei salvato il Paese dallo sciagurato ingresso in guerra. Avrei salvato milioni di vite in Europa. E la monarchia in Italia».

Tornò al proprio albergo ginevrino a piedi, camminando per le strade silenziose e quasi deserte, bagnate più dall’umidità che dalla pioggia, continuando a pensare a tutti gli scenari possibili. Maria José era un’ottimista, un’idealista… e quindi un’illusa. Circondata dalla crema di una certa cultura italiana, pensava che tutti ragionassero come i vari Papini, Casella, Trilussa, Flora e gli altri intellettuali che frequentavano il suo salotto: persone indubbiamente raffinate, ma molto distanti dalla realtà del Paese. A Napoli la principessa andava a trovare Benedetto Croce, ma era capace di rendersi conto che non tutti gli scugnizzi erano della stessa pasta del filosofo abruzzese?

Riteneva che quel suo gesto avrebbe certamente scosso gli animi dei tanti Italiani insofferenti al regime, dei tanti intellettuali antifascisti che accettavano gli aiuti economici del Duce ma che sarebbero stati pronti a tradirlo, come quel Moravia, autore di un romanzo pruriginoso che molti leggevano di nascosto; agli stessi fascisti “intelligenti”, cioè antitedeschi e filoinglesi, che indossavano l’orbace solo per far carriera e che, Ciano in testa, vedevano di malavoglia l’avvicinamento alla Germania. Ma soprattutto ella pensava ai moltissimi ufficiali che mordevano il freno, che avevano combattuto in Africa Orientale (dove – al momento di entrare ad Addis Abeba – erano stati costretti a cedere il passo alle Camicie nere perché loro fosse la gloria della conquista), ma che erano innanzitutto fedeli alla Corona e che attendevano solo un cenno del Re per rovesciare quel commediante di Mussolini…

Insomma, la morte di Hitler avrebbe comportato anche la caduta del Duce e, se mai fosse scoppiata una guerra, l’Italia avrebbe combattuto dalla parte giusta, cioè da quella dei vincitori…

E tutto con un semplice movimento del suo braccio!

Wishful thinking, dicono gli Inglesi…

Quella notte Marco sognò la cena dell’11 maggio 1938.

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Maria José è nervosa. Da sempre, appena messo piede in Italia, non sopporta la corte e la sua ridicola etichetta, la grettezza dei Savoia (o Carignano, o come diavolo si chiamano), l’incapacità di gustare la bellezza della vita, la gioia di suonare e di ascoltare musica di avanguardia, come quella del suo maestro Alfredo Casella, che dice un gran bene delle sonatine che ella ha composto e che la principessa ha fatto ascoltare soltanto a lui; degli scrittori che discutono con lei, da pari a pari, di letteratura e delle nuove mode intellettuali. Il marito non approva, preso com’è dalle sue stupide parate, ma quando è a Napoli Maria José va a trovare anche quel filosofo, come si chiama… ah sì, Benedetto Croce (che nome assurdo per un pensatore ateo!). È forse invidia, quella di Umberto, tanto inferiore a lei culturalmente? Certo, il futuro re non saprebbe scrivere non dico una sonatina per violino e pianoforte, ma nemmeno una poesiola (e, ammesso pure che ne fosse capace, certo disdegnerebbe renderla pubblica, prigioniero com’è della sua risibile etichetta). Ma chi ha detto che una principessa di sangue reale non possa vivere come una intellettuale, allargando la propria cerchia di amici e conoscenti alle menti più eccelse, scoprendo giovani talenti, come quel Pincherle (anche se si firma con uno pseudonimo) che ha il coraggio di sfidare le viete convenzioni letterarie tuttora imperanti in questo angolo della periferia culturale d’Europa? E poi, che emozione sentirsi lodata non solo per la propria bellezza o per la propria eleganza, ma anche per la propria intelligenza e capacità artistica! Che orgoglio ricevere le lodi – sicuramente sincere, perché mai dovrebbe mentirle? – del Maestro Casella! Dovrà far leggere le sue poesie a Papini… ma ha qualche remora: ella, di madrelingua francese, parla perfettamente fin dall’infanzia anche il tedesco, ma l’italiano è così pieno di eccezioni che non è facile impararlo bene per discorrere fluentemente, figuriamoci per scrivere opere poetiche!

Già, il tedesco, che conosce bene, essendo figlia della duchessa Elisabetta di Baviera, adesso le ha imposto di sedersi alla destra di questo caporaletto austriaco rivestito (non che suo suocero, basso com’è, pur essendo il capo dell’esercito vincitore della Grande Guerra, alla parata a Roma abbia particolarmente spiccato di fronte al nemico di allora e all’altro caporale, quello dei bersaglieri, che lo sovrastavano di un’intera testa…). Eppure non può odiare questa lingua, così dolce quando si declama Goethe, anziché quando la si sente nei deliranti proclami del tizio che le siede a lato… E poi, a dire il vero, il ramo tedesco è quello a cui tiene di più (oltre a quello paterno, naturalmente) della sua regale ascendenza. Quasi tutti mitteleuropei, tranne suo bisnonno, che era quel reazionario di Michele del Portogallo: meglio dimenticare lui e la conseguente ascendenza borbonica, tanto più che ha sposato un Savoia (o Carignano, o come diavolo si chiamano).

Sì, è stata messa al fianco di Hitler proprio per intrattenerlo. Ma ella si ribellerà – ancora una volta – all’etichetta e non gli rivolgerà una sola parola che non sia un altezzoso cenno all’inizio della cena. Poi, assoluto silenzio.

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Questi Savoia, pomposi provinciali che snobbano un innovatore delle lettere, un genio del pianoforte, un raffinato romanziere o un profondo filosofo (che fatica doverli ricevere quasi di nascosto, come se fossero degli amanti!) e poi si inchinano di fronte a questo arruffapopoli fanatico!

Che rabbia però! Alla mia destra siede un gerarca che ho visto solo qualche volta, non ricordo neppure che nome abbia, ma tanto non ha importanza, tanto sarà sicuramente un fascista ottuso e non voglio dargli confidenza. Magari sarebbe addirittura capace di rimproverarmi perché non pendo dalle labbra di Hitler!

E io, invece, non voglio rivolgergli neanche una parola! Per concentrarmi fisso le stoviglie che ho di fronte a me (del resto, qui in Italia non si insegna ai bambini che “a tavola ognuno guarda nel suo piatto”?), sui bicchieri, sulle numerose posate: tre forchette, più quella piccola per il dolce; il coltello da frutta… il coltello! Se fosse più acuminato… Il caporaletto si è stancato (per fortuna) di rivolgermi frasi di convenienza: dopo qualche diniego dato con un cenno del capo o della mano, senza nemmeno degnarlo di un nein, ha deciso di continuare il discorso con chi siede alla sua sinistra, parlando non direttamente al Principe, ma all’am­ba­sciatore tedesco, che traduce a mio marito qualche banalità riguardo le bellezze che ha ammirato e l’entusiasmo dei Napoletani che a suo dire lo avrebbe commosso… come se un tale essere si potesse emozionare, come se potesse intendersi di arte!

La cena è vegetariana, in omaggio alle idee sulla salute dell’ospite, che non ha potuto fare a meno di lanciarsi in un elogio della cucina salutista, criticando gli amanti del “succo di cadavere” (così chiama il brodo di pollo) e delle carcasse arrosto: già, come se il grasso contenuto nelle fritture, nella parmigiana di melanzane, nei peperoni imbottiti fosse invece altamente consigliato! Ha mangiato fino all’ultimo maccherone – ignora del tutto cosa sia la creanza: anzi ha addirittura osato riprendere il Principe Umberto perché aveva lasciato l’elegante “piatto del cardinale”! – definendo addirittura meravigliosa (wundebar!) la pietanza servita, ignorando il fatto che io avevo dato ordine esplicito di servire la pasta con il ragù alla napoletana, in cui la carne non appare, ma che ha rilasciato i suoi “succhi di cadavere” nel corso di una lunghissima cottura…!

Quando i fanatici ammiratori di Mussolini sostengono che “adesso i treni arrivano in orario!”, i miei amici antifascisti sogliono replicare (almeno, così mi raccontano) che allora sarebbe bastato farlo capostazione, anziché capo del governo; così, se tutta la scienza di questo Hitler consiste nel saper individuare i cibi adatti ad una corretta alimentazione, avrebbe potuto tutt’al più fare il Gran Cuciniere alla nostra corte bavarese, anziché divenire Cancelliere di Germania, anzi del Terzo Impero!

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In seguito non ricordò se l’idea di chiedere una bistecca al sangue le fosse venuta per dare fastidio a quel vegetariano o per procurarsi un’arma.

Aveva pronta anche una giustificazione a quell’evidente “offesa” fatta all’illustre ospite: «Mi ripugna mangiare questa robaccia, ma me la ha ordinata il medico per rimettermi dalla mia anemia post partum e poter dare al più presto altri figli alla Patria!»; ma non ve ne fu bisogno: il Führer non vide o finse di non vedere la pietanza che veniva portata solo per la Principessa di Piemonte, che per tagliarla meglio aveva chiesto un coltello a seghetto (“ben affilato”, aveva specificato). Non dovette fare che una sola prova sulla spalla di vitello – richiesta appunto per avere a che fare con una carne più dura – per rendersi conto di come quella posata si sarebbe potuta trasformare in arma.

Rimase con la forchetta a mezz’aria, prima di portare alla bocca il pezzo di carne e iniziare a masticarlo, chiedendosi se avesse mai trovato il coraggio di fare ciò che aveva in mente.

Aveva assistito, qualche mese prima, a una rappresentazione di Tosca, trovando risibile la scena dell’uccisione: con un coltello a spatola, come quello che presumibilmente stava usando Scarpia, come avrebbe potuto la cantante inferire un colpo mortale? Ma sulla mensa del capo della polizia si sarebbe potuto trovare un coltello diverso, adatto alla carne: allora tutto sarebbe risultato giustificabile. In fondo, l’opera italiana non è così assurda come si è portati a credere (anche se Tosca si lancia dagli spalti di Castel Sant’Angelo e finisce nel Tevere, anziché spiaccicarsi nel cortile: ma quella è colpa di Sardou e del suo testo teatrale, nell’opera non si fa cenno al punto di atterraggio della protagonista!).

«Questo è il bacio di Tosca!», aveva affermato l’eroina di Puccini affondando il coltello nel petto del crudele baritono (cattivo di per sé, ovvero malamente, come dicono a Napoli: in fondo il trio dei due amanti buoni contrastati dal malvagio di turno – tenore, soprano e baritono – propone a livello più elevato quello plebeo formato da Isso, Essa e ’o Malamente della sceneggiata partenopea).

Alcune voci riportarono che la futura regina avesse imitato la diva settecentesca, gridando mentre colpiva Hitler alla giugulare: «Questo è il bacio di Maria José!»; e, durante il trambusto seguito, quando veniva portata di fretta nelle sue stanze, avesse ripetuto un paio di volte agli attoniti spettatori: «E avanti a lui tremava tutta Europa!», ma probabilmente si trattò di una invenzione ex post.

La notte insonne che Maria José passò fu popolata di progetti immediati: la Germania non sarebbe rimasta a guardare; sia che il potere a Berlino venisse preso dai militari, sia che continuasse a rimanere – dopo immediate elezioni democratiche – nelle mani del Partito Nazionalsocialista, avrebbe chiesto conto a Mussolini del fatto di non essere stato capace di impedire un attentato al Cancelliere tedesco. Il Duce avrebbe dovuto rassegnare, volente o nolente, le dimissioni: bisognava convocare immediatamente un gruppo di politici ed intellettuali antifascisti ed affidare loro la creazione di un governo provvisorio, in attesa di libere elezioni… forse da non indire immediatamente, ma da procrastinare di qualche anno, in maniera tale da poter indirizzare il popolo, con un’adeguata propaganda, verso i valori della democrazia e dell’antifascismo.

Nella migliore delle ipotesi, l’Italia defascistizzata si sarebbe trovata addirittura di fronte una Germania a sua volta denazificata, che sarebbe stata – adesso sì! – un’ottima alleata e grata per averla liberata dal suo dittatore; nel peggiore dei casi, invece, una nazione ancora avvolta nella nube del fanatismo, smaniosa di vendetta. A quel punto una guerra sarebbe stata inevitabile, ma Francia e Inghilterra – per non parlare dell’Austria, occupata solo due mesi prima! – sarebbero di certo scese a fianco dell’Italia per debellare il totalitarismo razzista della svastica.

Attaccare prima di essere attaccati, questa la soluzione!

In ogni caso – commentavano le persone dell’entourage monarchico – l’Italia era ormai svincolata da una pericolosa alleanza e l’Europa tutta finalmente libera da un angoscioso incubo.

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Il giorno dopo l’attentato passò in un’atmosfera irreale. La censura fascista divenne ancora più ferrea e nessuna notizia dell’omicidio trapelò all’esterno del Palazzo Reale. Un provvidenziale acquazzone che durò tutta la giornata di giovedì 12 maggio e proseguì, a scrosci alterni, per altri due giorni giustificò pienamente i cambiamenti nei programmi: si diffuse la notizia che il Führer, ammirato dalla bellezza dei paesaggi costieri tirrenici, avesse chiesto di essere trasferito via mare, anziché in treno, una volta migliorato il tempo. Altri dissero che era già ripartito in aereo, richiamato da improvvisi quanto improcrastinabili impegni politici. Grande la delusione di chi si era spostato per vedere Hitler laddove era previsto, ma del resto, e nessuno immaginò le vere cause di quel cambiamento. I giornali, del resto, archiviato il campionato di calcio italiano da due settimane (con l’Ambrosiana Inter di Meazza che aveva superato la Juventus), concentrarono l’attenzione sull’inci­piente campionato mondiale, che con il laziale Piola ed il triestino Colaussi di lì a un mese avrebbe visto un altro trionfo degli Azzurri.

Maria José fremeva: non le era stato possibile mettersi in contatto con alcuno dei suoi corrispondenti, ma era certa che la notizia, in un modo o nell’altro, fosse trapelata. A quel punto Mussolini avrebbe dovuto decidere cosa fare: era certa che la risoluzione più probabile sarebbe stata quella di dare le dimissioni per non figurare come l’uomo che aveva stretto amicizia con Hitler e poi l’aveva tradito. Certo non avrebbe mantenuto il posto di Capo del Governo di un Paese che, aggredito o aggressore, avrebbe potuto essere a breve coinvolto in una guerra con quella che era stata fino al giorno prima retoricamente definita la “nazione sorella”!

Immaginava che il Re prendesse in mano la situazione, concentrando le divisioni al confine con l’Austria per restituire la libertà a quella nazione, invasa giusto da due mesi, il 12 marzo. Quattro anni prima, lo stesso comportamento, tenuto da Mussolini, aveva fermato le pretese di Anschluss di Hitler: perché adesso la situazione non si sarebbe potuta ripetere? E questa volta a fianco degli Italiani sarebbero scesi Inglesi e Francesi; nel loro piccolo, anche Belgi e Olandesi; e poi, scomparso lo spettro del Fuhrer, i suoi (pochi) fautori austriaci si sarebbero sbandati e scoraggiati e il resto della nazione sarebbe insorta per cacciare l’invasore!

Maria José era sicura che la cupa notte del totalitarismo fosse ormai al termine: un’Italia governata democraticamente dalla élite culturale, avrebbe di nuovo reso quel Paese il paradiso delle Muse, facendo dimenticare i trascorsi squallidi dell’Italietta liberale, nonché della ridicola e pretenziosa romanità fascista.

Wishful thinking.

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Mussolini non ha mai apprezzato l’arte di Pirandello, pur essendo grato al grande scrittore per l’aiuto ricevuto nel periodo più difficile, quando rischiava di essere travolto dallo scandalo successivo alla morte di Matteotti. Il 17 settembre 1924, Pirandello espresse pubblicamente con una lettera ai giornali la propria adesione al fascismo.

«Sento che è questo il momento più proprio di dichiarare una fede nutrita e servita in silenzio, e se l’Eccellenza vostra mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregherò come massimo onore tenervi il posto del più umile e obbediente gregario», scrisse Pirandello per sostenere il Capo del Governo nel momento della sua più bassa popolarità, a pochi giorni dall’omicidio dell’onorevole Armando Casalini, assassinato su un tram, sotto gli occhi della figlia, dal carpentiere comunista Giovanni Corvi, che lo assalì gridando «Vendetta per Matteotti!».

Mussolini è sempre stato grato all’uomo Pirandello, pur non ammirandone e non condividendone (i maligni sostengono: non comprendendone appieno) l’impostazione poetico-filosofica. Invece, con ogni probabilità, il Duce aveva compreso perfettamente il mondo soggettivo e quindi fluttuante, sdrucciolevole, descritto dal genio di Girgenti: solo lo riteneva lontano dalle granitiche certezze che la mentalità fascista voleva imporre alla nazione. Il ferreo realismo mussoliniano mal si conciliava con il “così è (solo) se vi pare” pirandelliano… però il tema della follia, accennato in alcune opere del Maestro (e ripreso, semplificandolo, dal suo imitatore Eduardo De Filippo) può in certi casi estremi ritornare utile. Come aveva risolto, nel suo piccolo, il suo problema di… facciata il povero Ciampa, protagonista del Berretto a sonagli? La – pretesa – follia di chi lo aveva accusato di essere becco aveva sistemato la questione.

Così, in questo caso, si può giustificare – agli occhi dell’alleato tedesco – l’attentato al Führer: non una trama monarchica, non la punta dell’iceberg di una insofferenza antigermanica diffusa, ma semplicemente il gesto isolato di una folle, della quale non è nemmeno giuridicamente etico chiedere la testa, perché palesemente incapace di intendere e di volere. Una pazza, insomma, che non si può neppure condannare, così come non venne condannata Violet Gibson, la folle dublinese che aveva attentato al Duce nel 1926, ma che fu dichiarata inferma di mente e semplicemente espulsa dall’Italia.

Maria José viene dunque trattata come una malata di mente e messa sotto custodia: il marito cerca di starle vicino, il suocero – al solito – non sa che pesci prendere e in attesa degli eventi si rifugia a Villa Rosbery, ai piedi della collina di Posillipo.

Mussolini – per la sicurezza del monarca, s’intende! (se la notizia trapelasse ci potrebbe essere qualche moto popolare) – fa raddoppiare il controllo sulla Villa, impedendo anche l’ingresso al porticciolo (qualche facinoroso potrebbe introdursi via mare…).

È la prima mossa che, bloccando i principali membri della famiglia reale (il re ed il suo successore) nella residenza napoletana, permette di avere maggiore libertà nella gestione della politica romana.

A Napoli è presente il corpo dei Moschettieri del Duce, il reparto scelto della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Bene: siano adibiti alla sicurezza del Re, mentre i (pochi) corazzieri presenti ritornino pure a Roma, a vegliare sul resto della famiglia reale. La scelta di quel corpo non è casuale: dietro l’apparente omaggio del Capo di Stato al Capo del Governo, c’è la decisione di affidarsi a militi fascisti fanatizzati e fedelissimi, per controllare ogni mossa della famiglia reale ed isolarla il più possibile. Ad essi, si affiancherà a breve – come gesto per rassicurare l’alleato tedesco sul fatto che nessuno cercherà di liberare il monarca – una compagnia di SS Liebestandarte. Poi, in silenzio ed evitando ogni possibile clamore, il re viene diviso dai Principi di Piemonte, che vengono trasferiti – sempre per la loro sicurezza, è chiaro! – a Ventotene.

Peraltro, al di là di ogni più rosea previsione, nessuno cerca di portare aiuto al reale prigioniero, anzi! C’è chi propone di sostituirlo con il Duca d’Aosta, chi suggerisce addirittura di richiamare i Borbone, chi pretende di dichiarare decaduta la Monarchia ed acclamare Mussolini presidente a vita…

Stupisce l’indifferenza per Sciaboletta. O forse no: è vero che la propaganda antisabauda lavora sottobanco, ma in fondo non fa altro che far riemergere l’astio secolare per Casa Savoia: per i massacri compiuti nel Regno delle Due Sicilie dagli invasori piemontesi, che nonostante il passare dei decenni e l’oblio “di Stato” non sono stati dimenticati; per la più recente “inutile strage” del 15-18, voluta dal preteso “re vittorioso” non per ottenere territori che l’Austria sarebbe stata pronta a cedere se l’Italia non fosse entrata in guerra, ma in realtà per togliere dalle fabbriche – e soprattutto dalle strade – masse di lavoratori sfruttati dagli industriali nelle fabbriche del Nord del Paese. Alla vittoria “mutilata” del 1918 sono contrapposte le campagne – realmente vittoriose – condotte dal Duce in Libia (e nell’Agro pontino) nonché i successi militari ottenuti dal Duca d’Aosta.

Vittorio Emanuele è dipinto come un massone, storpio nel fisico come nel morale: si sostiene che Umberto è troppo bello per essere figlio suo e non di uno dei cugini (se non di qualche aitante corazziere). Si tira di nuovo fuori il mai sopito sospetto sullo scambio in culla di Vittorio Emanuele II con il figlio del macellaio fiorentino Gaetano Tiburzi, detto “il Maciacca”: perché, in un momento in cui sarebbe stato necessario rafforzare il nascente Regno italico con matrimoni che lo legassero alle principali dinastie europee, si era optato per due matrimoni consecutivi di Vittorio Emanuele II e di suo figlio Umberto I con due cugine di Casa Savoia? Forse per assicurare almeno un po’ di sangue realmente sabaudo alla discendenza? E perché Sciaboletta, comunque erede di una Corona – almeno sulla carta – dal passato glorioso, non aveva trovato altra consorte che la figlia di un Principe di uno staterello (al tempo non ancora Regno, lo sarebbe divenuto solo nel 1910) il cui nome evocava più un famoso amaro che non una nazione? Tra l’altro, il fratello della principessa, Danilo, per la sua vita spensierata e godereccia tenuta nelle varie capitali d’Europa, soprattutto a Parigi, sarebbe stato irriso da Franz Lehár, che ne avrebbe fatto il protagonista della sua celeberrima operetta La vedova allegra (1905), generando non poco clamore, con grave discredito per lo stesso Principato del Montenegro (chiamato nella finzione Pontevetro).

Era solo una questione di avvenenza e di geopolitica?  O la bellissima Elena, oltre che a portare con sé la promessa di una certa influenza nei Balcani e la speranza di un contatto indiretto con la Russia, era anche in condizioni di non guardare dall’alto in basso (dal punto di vista aristocratico – da quello fisico le sarebbe stato impossibile fare altrimenti) il pronipote del “Maciacca”, come avevano forse fatto le discendenti di altre Casate più illustri…

Calunnie di invidiosi, si dirà… fatto sta che tra vecchi borbonici, nuovi socialisti (ovvero mazziniani redivivi) e mai sopiti papalini, la popolarità di Casa Savoia nel nuovo secolo non era mai scesa a così minimi termini.

Negli anni Trenta circolava una battuta: «Un tale afferma perentoriamente: “In casa mia, io sono il re!”. E l’amico commenta: “Ho capito: e tua moglie è Mussolini…”». E alla fine di quel 1938 la monarchia non era stata abolita, ma semplicemente dimenticata.

In modo indolore, quasi senza avvertirlo, uno degli elementi della presunta diarchia “Re-Duce” è venuto meno. Solo la maggior parte delle alte cariche dell’esercito è rimasto fedele al Re. Ma la decisione di Mussolini di limitarsi a tenere agli arresti domiciliari di fatto Vittorio Emanuele (giustificando il suo fermo per “motivi di salute, pubblica e privata”), toglie ai generali ogni giustificazione per ribellarsi apertamente.

Intanto il Gran Consiglio vota il passaggio – momentaneo, si capisce! –  del comando dell’Esercito dal Re al Duce e contemporaneamente inasprisce le sanzioni contro gli appartenenti alla massoneria. Il risultato è l’epurazione di oltre un terzo dello Stato Maggiore, spinto al pensionamento anticipato se non alle dimissioni.

A questo un nutrito gruppo di ufficiali liberali e antifascisti di stanza in Piemonte decide che non può assistere alla fascistizzazione dello Stato rimanendo con le mani in mano e prende l’iniziativa. Lo fa però a modo suo, cioè non combattendo, bensì più semplicemente disertando e chiedendo asilo in Francia, dove costituisce un gruppo definito “Italia libera”, che pretende di essere il vero rappresentante della monarchia, data la situazione di arresto della famiglia reale. Il suo seguito, però, è nullo. Un solo ammiraglio cerca di far condurre la corazzata Littorio verso il porto di Marsiglia per consegnarla allo stato maggiore della “Italia libera”, ma quando scende baldanzosamente a terra con un paio di colleghi vede alle sue spalle ritirare la passatoia e la nave ripartire alla volta di Genova: gli ufficiali inferiori, di provata fede fascista, hanno compreso il gioco del comandante e hanno salvato la corazzata.

Un altro caso si verifica a bordo della Vittorio Veneto. Si vocifera che il comandante sia stato linciato dai suoi sottoposti, ma a terra nessuno ha visto il corpo, essendo stato sepolto in mare dopo essere ufficialmente deceduto a bordo per malattia infettiva.

*          *          *

Come se avesse sognato di essere egli stesso la salma lasciata cadere tra le onde, al contatto con le acque Marco si svegliò di soprassalto.

Le parole della ex regina lo avevano profondamente colpito: come poteva essere possibile tanta cecità da non rendersi conto di quali sarebbero potute essere le effettive conseguenze di quel gesto sconsiderato? Credere che un uomo solo avrebbe causato la pace o la guerra, come se il popolo che lo sosteneva non avesse la possibilità di fermarlo né condividesse la sua visione del mondo?

In effetti, dopo un attentato, con il consenso nei suoi confronti alle stelle, Mussolini avrebbe benissimo potuto decidersi a realizzare quello che in tanti gli avevano più volte consigliato: fare pulizia in casa e soprattutto nell’esercito, eliminando gli ufficiali in odore di massoneria (ed erano molti) e ringiovanendo di conseguenza le alte sfere militari. A tale epurazione si sarebbe affiancata la decisione di stringere una ferrea alleanza con la Germania, a sua volta al vertice della stima – o almeno del timore – delle potenze mondiali, per rassicurarla ancor più che l’Italia fascista era pienamente affidabile e che condannava unanimemente il folle gesto di una fanatica isolata e del tutto insana di mente.

Marco, non riuscendo a prendere sonno, continuò a pensare ad altri possibili scenari.

Il gesto di Maria José non aveva fatto altro che rafforzare Mussolini anche sullo scacchiere internazionale: nel settembre di quell’anno sarebbe stato il protagonista incontrastato della conferenza di Monaco, rispettato dai Tedeschi (il trio Goebbels-Göring-Himmler non aveva il carisma del Führer e non reggeva il confronto con il Duce).

In patria, a chi gli proponeva di dichiarare la repubblica, Mussolini – sentendosi più che mai sicuro nella propria posizione – rispondeva: «Non è necessario che io diventi Presidente: mi basta essere il Duce degli Italiani».

Quando, dopo aver firmato personalmente il Patto d’Acciaio in una sfarzosa cerimonia a Berlino (avrebbe dovuto partecipare alla cerimonia Galeazzo Ciano ma, vista la situazione, il genero del Duce aveva rassegnato le dimissioni da ministro degli esteri e si era ritirato a vita privata), la Germania invase la Polonia, scatenando la reazione isterica della Francia, a sua volta invasa e sconfitta, Mussolini convocò lo stato maggiore tedesco, quasi fosse lui il capo di stato del terzo Impero. L’incontro avvenne al Brennero, al confine ma in territorio italiano. I generali tedeschi avrebbero voluto attaccare la Russia, ma Mussolini, che aveva un forte ascendente sull’intero popolo tedesco e, quindi, anche nei confronti del comando germanico, riuscì a convincerli a desistere, per concentrare la propria attenzione sullo scacchiere mediterraneo: nel giro di pochi mesi, mentre l’Inghilterra era priva degli uomini catturati a Dunkerque e bloccata dai continui bombardamenti, tutti i possedimenti britannici nel Mare Nostrum, da Gibilterra al canale di Suez, caddero nelle mani dell’Asse.

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Marco, seguendo queste fantasticherie, riprese sonno. E il sogno continuò.

Gli parve di salire le scale del Palazzo dell’Informazione di Milano, sulla cui scalinata campeggiava un mosaico con la scritta: «Questo è il secolo del Fascismo: ce n’è per voi e per quelli che verranno». Parole veridiche: forse l’ideario mussoliniano non avrebbe improntato di sé i secoli futuri, come era negli auspici di chi aveva vergato quella frase, ma di certo – in un modo o nell’altro – se ne sarebbe continuato a parlare…

Nel sogno, immaginò di incontrare, in quelle sale, lo stesso Mussolini – ormai anziano e ritirato dal mondo della politica, interessato solo al giornalismo – e di commentare con lui la situazione che vedeva l’Italia vittoriosa imporre la propria pax fascista al resto del mondo. Gli chiese:

– Se Hitler fosse rimasto vivo, saremmo ancora più grandi?

– Ne dubito: ho l’impressione che la sua schizofrenia ci avrebbe potuto giocare brutti scherzi…

– Quali?

– Il suo fanatismo per la razza pura e il Lebensraum avrebbe potuto portare, ad esempio, a una guerra contro l’Unione Sovietica e sono sicuro – conoscendo il carattere degli Slavi – che quella sanguinaria dittatura, che è naturalmente e spontaneamente implosa nel giro di pochi anni, si sarebbe invece rafforzata in caso di un attacco esterno. Niente convince meglio gli incerti di una simile paura! Nulla rende più saldo un popolo che agitare questo spettro, reale o inesistente che sia… Pensiamo, per non andare lontano nel tempo, a quanto è servito allo stesso Hitler l’antisemitismo della sua dottrina. Oppure, per non andare lontano nello spazio, alla favola della “indipendenza dallo straniero” che è stata alla base del Risorgimento italiano: in Germania un fatto reale, visto lo strapotere delle grandi famiglie di banchieri e commercianti ebraici nel centro Europa; nella nostra Penisola invece fittizio, visto che i Sovrani preunitari parlavano tutti italiano o il dialetto locale (tranne l’Imperatore d’Austria, è ovvio) e il preteso liberatore, invece, parlava francese…

– Una guerra… alla Russia? Ma è assurdo!

– La guerra alla Russia la possono fare – mi correggo: la possono vincere – soltanto i Russi. Del resto, non si è sempre detto che il numero è potenza?

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Questa volta Marco si svegliò serenamente. Mentre consumava la colazione, pensò a lungo all’incontro della sera prima con l’ex regina. Gli parve che la donna non fosse certo pazza, bensì chiusa nel proprio mondo, incapace di rendersi conto della realtà circostante, esaltata nella contemplazione delle proprie idee ed ideologie, proprio come i giacobini di quasi due secoli prima. Insomma, con il suo gesto Maria José non avrebbe certo salvato l’Italia (almeno nel senso che dava lei a questo concetto) e men che mai avrebbe salvato l’Europa: ma, soprattutto, non avrebbe assolutamente salvato la Monarchia.

 

Gianandrea de Antonellis

 

Castellammare di Stabia
12 febbraio 2023